FLORIN WEBSITE © JULIA BOLTON HOLLOWAYAUREO ANELLO ASSOCIAZIONE, 1997-2024: MEDIEVAL: BRUNETTO LATINO, DANTE ALIGHIERI, SWEET NEW STYLE: BRUNETTO LATINO, DANTE ALIGHIERI, & GEOFFREY CHAUCER || VICTORIAN: WHITE SILENCE: FLORENCE'S 'ENGLISH' CEMETERY || ELIZABETH BARRETT BROWNING || WALTER SAVAGE LANDOR || FRANCES TROLLOPE || ABOLITION OF SLAVERY || FLORENCE IN SEPIA  || CITY AND BOOK CONFERENCE PROCEEDINGS I, II, III, IV, V, VI, VII || MEDIATHECA 'FIORETTA MAZZEI' || EDITRICE AUREO ANELLO CATALOGUE || UMILTA WEBSITE ||  LINGUE/LANGUAGES: ITALIANO, ENGLISH || VITA
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LA CITTA` E IL LIBRO III
ELOQUENZA SILENZIOSA:
VOCI DEL RICORDO INCISE NEL
CIMITERO 'DEGLI INGLESI',
CONVEGNO INTERNAZIONALE
3-5 GIUGNO 2004


 


PROGRAMMA DEL CONVEGNO, ‘LA CITTA’ E IL LIBRO III’/ELOQUENZA SILENZIOSA: VOCI DEL RICORDO INCISE NEL CIMITERO ‘DEGLI INGLESI’/

3-4 June 2004, Sala Ferri, Gabinetto G.P. Vieusseux, Palazzo Strozzi

Giovedì 3 giugno 2004/ Thursday 3 June 2004/ Ore 9.00/ 9:00 a.m.

SALUTI
Marcello Fazzini, Presidente del Gabinetto G.P. Vieusseux
Eugenio Giani, Assessore alle Relazioni Internazionali del Comune di Firenze
Giannozzo Pucci, Presidente dell'Associazione Internazionale ‘Fioretta Mazzei’
Gerardo Kraft, Presidente dei Cimiteri Evangelici di Firenze
Vanessa Hall-Smith, Director, The British Institute of Florence

INTRODUZIONE

L’internazionalità di Firenze: il ricordo di Vieusseux nel Cimitero detto ‘degli Inglesi’ Maurizio Bossi, Gabinetto G.P. Vieusseux, Firenze

'Tuoni di bianco silenzio': Il Cimitero ‘degli Inglesi’ come biblioteca e come archivio Julia Bolton Holloway, Aureo Anello Associazione Biblioteca e Bottega Fioretta Mazzei e Amici del Cimitero 'degli Inglesi'

I CIMITERI DI FIRENZE E LA TRASMISSIONE DEL RICORDO NELL’OTTOCENTO/ THE TRADITION OF MEMORY IN NINETEENTH-CENTURY FLORENCE

Il bello sepolcrale Carlo Sisi, Galleria d'Arte moderna di Palazzo Pitti, Firenze || Vivere con la morte: iscrizioni funebri e monumenti in Toscana, Anne O’Brien, National University of Ireland, Galway || La letteratura del ricordo, Laura Melosi, Università di Macerata || Memoria come benedizione: il Cimitero Ebraico a Firenze Dora Liscia Bemporad, Università di Firenze|| Architetture dei cimiteri 'degli Inglesi' e 'agli Allori' Giampaolo Trotta

Ore 15.30/ 3:30 p.m.

I ‘FIORENTINI’ INGLESI E AMERICANI/ ENGLISH AND AMERICAN ‘FLORENTINES’

La tentazione di Eva: 'Paradise Lost' nella scultura di Hiram Powers Katerine Gaja, The British Institute of Florence ||L’iscrizione sulla tomba di Walter Savage Landor Mark Roberts, The British Institute of Florence ||La vedova di Arnold Savage Landor: Libri, corpi e l'incisione di memoria in Firenze Allison Levy, Wheaton College || Fanny Trollope, her Family and Circle at the Villino Trollope David R. Gilbert, The Middle Temple, London || Elizabeth Barrett Browning e la Bibbia Stephen Prickett, The Armstrong Browning Library, Baylor University ||La pietra e la parola: Elizabeth Barrett Browning a Firenze Claudia Vitale


CENA presso il CIMITERO 'DEGLI INGLESI', Piazzale Donatello, 38/ DINNER in the 'ENGLISH' CEMETERY, Piazzale Donatello 38

Ringraziamo
AGENZIA PER IL TURISMO FIRENZE


Venerdì 4 giugno 2004/ Friday 4 June 2004/ Ore 9.30/ 9:30 a.m.

Una tomba dal nome svanito: Isa Blagden Corinna Gestri, La Nara di Prato||Clough, Horner, Zileri: tombe ricordate in un diario inglese inedito/ Tombs Linked in an Unpublished Diary Alyson Price, The British Institute of Florence||William Holman Hunt per la moglie giovane Fanny/ William Holman Hunt for His Young Wife Fanny Patricia O’Connor, The Pre-Raphaelite Society ||L'arte della memoria: John Roddam Spencer Stanhope e la tomba della figlia Mary/ The Art of Memory: John Roddam Spencer Stanhope and the Tomb of His Daughter Mary Nic Peeters, Vrije Universiteit Brussel– Judy Oberhausen, San Mateo, California||Notti bianche d'Islanda a Firenze: William Morris e Daniel Willard Fiske/ Northern Lights in Florence: William Morris and Daniel William Fiske Kristín Bragadóttir, The National Library, Reykjavik ||Marmo bianco: la vita e le lettere di Hiram Powers, un inedito di Clara Louise Dentler/ White Marble: The Life and Letters of Hiram Powers in Clara Louise’s Dentler’s Manuscript Jeffrey Begeal, The International Baccalaureate Organization


Ore 14.45/ 2:45 p.m. VISITA A CASA GUIDI/VISIT TO CASA GUIDI


 


Ore 15.30/ 3:30 p.m.

ALLA RICERCA DI ‘FIORENTINI’ DI ALTRE CULTURE NEL CIMITERO ‘DEGLI INGLESI'/ OTHER 'FLORENTINES' IN THE 'ENGLISH' CEMETERY

Religione, nazione, affari: Il patrimonio della memoria nella comunità svizzera di Firenze/ Religion, Nation Alessandro Volpi, Università di Pisa || 'Sotto i mirti della dolce Italia': I russi Michail Talalay, Russian Academy of Sciences || Da Mosca a Firenze: i Kudrjavcev e l’Italia Lucia Tonini, Università 'l'Orientale', Napoli || Le ragioni di una assenza, i motivi di una presenza: Polacchi e Ungheresi nel Cimitero 'degli Inglesi' Luca Bernardini, Università di Milano || Gli Europei del Nord: dall'Olanda, dalla Scandinavia e dai Paesi baltici/ Northern Europeans: Holland, Scandinavia and the Baltic Countries Asker Pelgrom, Rijkuniversiteit Groningen, Olanda || Due sepolture al Cimitero ‘degli Inglesi’: una traccia per l’attività fiorentina di Félicie de Fauveau Silvia Mascalchi, Istituto Statale d'Arte di Firenze || Robert Davidsohn, un autore della memoria storica di Firenze/ Robert Davidsohn, Historian of Medieval Florence Giuliano Pinto, Università di Firenze


SABATO, 5 GIUGNO/ SATURDAY, JUNE 5

VISITA A VILLA LANDOR, FIESOLE, AL CASTELLO DI VINCIGLIATA, AL MONASTERO DI VALLOMBROSA, A BELLOSGUARDO, VILLA BRICHIERI-COLOMBI, VILLA LO STROZZINO

VISIT TO VILLA LANDOR, FIESOLE, VINCIGLIATA CASTLE, VALLOMBROSA MONASTERY, BELLOSGUARDO'S VILLA BRICHIERI-COLOMBI AND VILLA LO STROZZINO


MOSTRE CORRELATE A FIRENZE/ RELEVANT EXHIBITIONS IN FLORENCE

Firenze in seppia/ Florence in Sepia, Sala Ferri, Gabinetto Vieusseux. Palazzo Strozzi (Sullo
sfondo particolare di Botticelli: foto d'epoca in seppia (Ottocento).
Per contestualizzare il Cimitero degli Inglesi nella città sarebbe auspicabile prima della lettura degli Atti compiere uno studio delle fotografie qui presentate. 


 

Botticelli e Filippino: L’inquietudine e la grazia nella pittura fiorentina del Quattrocento/ Anxiety and Grace in Florentine Quattrocento Painting. Palazzo Strozzi: www.botticellipalazzostrozzi.it

I giardini delle Regine: Il mito di Firenze nell’ambiente preraffaellita e nella cultura americana fra Ottocento e Novecento/ The Queens' Gardens: The Myth of Florence Amongst the PreRaphaelites and in Nineteenth and Twentieth Century American Culture. Galleria degli Uffizi and http://www.igiardinidelleregine.it


‘Aureo Anello’ Associazione Biblioteca e Bottega Fioretta Mazzei e Amici del Cimitero ‘degli Inglesi’
‘Centro Romantico’ del Gabinetto G.P. Vieusseux
Cimiteri Evangelici di Firenze
The British Institute of Florence
Associazione Internazionale ‘Fioretta Mazzei’
Amicizia Ebraico-Cristiana


Gli Atti sono pubblicati in questa stessa pagina solo in lingua italiana. Parte degli Atti sono pubblicati in due lingue, italiano e inglese ('testo a fronte'), ai seguenti indirizzi: http://www.florin.ms/gimela.html, /gimelb.html, /gimelc.html, /gimeld.html, /gimele.html, /gimelf.html. Per i testi in lingua originale utilizziamo il colore nero, per la traduzione il colore utilizzato è il grigio.


Per ogni riferimento ad una sepoltura nel Cimitero 'degli Inglesi' sono riportati il nome del sepolto (scrittura capitale in rosso), la nazionalità (scrittura capitale in azzurro), le notizie tratte dai documenti d'archivio, le epigrafi (in nero), le coordinate della tomba (in azzurro), le immagini dei monumenti nostre fonti primarie. Includiamo anche le iscrizioni di alcune lapidi commemorative e altri oggetti con epigrafi che per un qualche motivo siano strettatemente correlate alle personalità che nel cimitero hanno trovato sepoltura. Le iniziali L.S. stanno per il Pastore Luigi Santini. Esempio:

Key to Codes Used in Alphabetical Register:
V=damaged by vandalism to be repaired; ^=needing to be photographed; * =register and tomb checked against each other; ° =living descendants, relatives, researchers; § =further documentation in cemetery archives;/ BOLD CAPS, IN RED=FIRST NAME, (MAIDEN NAME), SURNAME/ IN BLUE=COUNTRY/COUNTRIES/;/normal type=1877 alphabetical register entry ending with tomb number, written in Italian/ 1844-1871/; additional information from 'Eglise Evangelique-Reformé de Florence Régistre des Morts', 2 vols, written in French/;  /  /=additional information, including codes GL=London Guildhall Library, PRO=Public Record Office, FO=Foreign Office, kindly supplied by Anthony Webb researching the English in Tuscany; Maquay Diaries=John Leland Maquay, Jr, Diaries, information kindly supplied by Alyson Price, Archivist, Harold Acton Library, Florence; Talalay=Michail Talalay, 'Tombe dei Russi nel Cimitero detto "degli Inglesi"', con l'assistenza di Gino Chelazzi, RC in Talalay=Registro del Cimitero, St Petersburg MKF in Talalay=Metrickesie Knigi Florencii, Libri parrochiali di Firenze, Chiesa Ortodossa; Freeman=James A. Freeman, 'The Protestant Cemetery in Florence and Anglo-American Attitudes toward Italy, Marker 10 (1993), 219-243; / [ ]=description of tomb]; BOLD (CAPS EXCEPT WHERE INSCRIPTION USES lowercase)=INSCRIPTION ON TOMB/; A1A, etc. coordinates indicating tomb position in cemetery/ tomb sculptor, signature of sculptor on tomb

Some entries have larger type paragraphs following the normal type ones. These give the entries from the official guidebook written by Pastore Luigi Santini, published by the Administration of the Cimitero agli Allori in 1981, and which is available in Italian and in English to visitors to the 'English' Cemetery. LS=Luigi Santini

Esempio:

ISABELLA BLAGDEN/ SVIZZERA/ +/135. Blagden/ Isabella/ Tommaso/ Svizzera/ Firenze/ 20 Gennaio/ 1873/ Anni 55/ 1194/ Isabelle Blagden, l'Angleterre, fille de Thomas/ GL23777/1 N°447, Burial 28/01, Rev. Tottenham/ Thomas Adolphus Trollope, What I Remember, II.173-175; Giuliana Artom Treves,  The Golden Ring: The Anglo-Florentines (London: Longmans, Green, 1956), passim./ ISABELLA [Cross on Flower Garland] BLAGDEN/ BORN . . . DIED . . . 1873/ THY WILL BE DONE . . ./F11C
[See Biblioteca e Bottega Fioretta Mazzei acquisitions]
 

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                                                                     Isa Blagden, portrait owned by Lilian White, reproduced in Jeanette Marks,
                                                                           The Family of the Barrett, 1938. Even her sepia portrait is indistinct.

ISABELLA BLAGDEN (1818-1873). E' sepolta vicino alle amiche E. Browning e T. Trollope: l'amore per la libertà e una appassionata partecipazione alle vicende del Risorgimento italiano cementarono quest'amicizia fra scrittrici ospiti di Firenze. Isa Blagden, inglese originaria delle Indie Orientali, s'era stabilita nel 1843 sulla collina di Bellosguardo; poetessa e narratrice di larga vena, affidò per il suo ricordo a quelle qualità umane che la fecero delicata soccorritrice di R. Lytton (il poeta Owen Meredith ospite paziente del vecchio bizzarro S. Landor, osservatrice attenta della cultura toscana del tempo. Misticismo esotico e romanticismo narrativo si mescolano nella sua produzione letteraria, ormai quasi cancellata, come la scritta sulla sua tomba (n. 1175). Eppure resta viva, forte e appassionata personalità di donna fedele al dono più prezioso: l'amicizia. L.S.


PREFACE
 

‘LA CITTA’ E IL LIBRO III’/ THE CITY AND THE BOOK III/ ELOQUENZA SILENZIOSA: VOCI DEL RICORDO INCISE NEL CIMITERO ‘DEGLI INGLESI’/ MARBLE SILENCE, WORDS IN STONE: FLORENCE'S 'ENGLISH CEMETERY’

Il cimitero detto 'degli Inglesi' si presenta come luogo in cui leggere non soltanto la composizione di un ambiente cosmopolita quale quello fiorentino dell'Ottocento, ma anche le modalità, gli stili con i quali si voleva perpetuare la memoria delle persone. Le sue caratteristiche lo rendono luogo esemplare del rapporto morale tra generazioni in una lunga epoca della civiltà europea.

Il convegno potrebbe quindi concentrarsi sulla tipologia della scrittura (letteraria, stilistica, artistica), persino la mancanza della stessa, di questa trasmissione di memoria, che caratterizzava l'Ottocento europeo nel suo desiderio di permanenza delle azioni di una persona, e al contempo rievocare le figure più significative ricordate dalle lapidi. Di tali figure andrebbero rievocate non solo le principali, ma anche figure considerate 'minori', in modo da rendere evidente la composizione degli ambienti cosmopoliti dell'Europa ottocentesca e il carattere della trasmissione di culture che essi portavano con sé, in particolare in un luogo-simbolo come Firenze. In tal modo il Cimitero verrebbe 'sfogliato' come un libro della memoria. Il convegno potrebbe articolarsi in un arco temporale scandito da eventi di grande portata per la storia europea, nel corso dei quali cambia anche lo spirito del rapporto tra i residenti stranieri e Firenze.

Gli interventi comprendono una valutazione sulle caratteristiche delle lapidi e dei loro contenuti come espressione della sensibilità complessiva dell'epoca e da introdurre alla trattazione di singole personalità e delle loro opere. Queste ultime dovrebbero comporre un quadro quanto più completo delle diverse culture rappresentate nel Cimitero.

Il convegno prosegue la serie 'La città e il libro' (I, 2001, L'alfabeto e la Bibbia, II, 2002, Il manoscritto, la miniatura), dedicata alle relazioni tra Firenze e l'opera scritta. La terza iniziativa, Eloquenza silenziosa, interpreta il cimitero come un libro del quale le iscrizioni rappresentano le pagine, spesso citando la Bibbia in diversi alfabeti e diverse lingue; libro che, nel caso del Cimitero detto 'degli Inglesi', racconta delle esistenze che nel corso dell'Ottocento hanno dato vita alla Firenze cosmopolita.

I convegni 'La citta e il libro' sono promossi da 'Aureo Anello' Associazione Biblioteca e Bottega Fioretta Mazzei e Amici del Cimitero 'degli Inglesi' in collaborazione con istituzioni fiorentine. Il nome dell'Associazione riprende le parole incise sulla lapide in marmo posta sulla facciata di Casa Guidi, dove si legge che Elizabeth Barrett Browning concepì la sua poesia come 'aureo anello' tra l'Italia e l'Inghilterra.

Maurizio Bossi
'Centro Romantico' del Gabinetto G.P. Vieusseux

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CENNI STORICI/ HISTORICAL NOTES 

Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t'appendea corone.

Ugo Foscolo, Sepolcri

Prima del 1827 i non cattolici, protestanti e ortodossi, morti a Firenze trovavano sepoltura a Livorno. In tale data il demanio granducale cedette alla Chiesa Evangelica Riformata Svizzera il terreno oltre la cerchia muraria in prossimità della Porta a' Pinti. La Rivoluzione francese e il Codice napoleonico ritornando alla legge giudaica e romana vietarono i cimiteri entro la cinta urbana. Eccezioni furono fatte in Gerusalemme per il Re Davide e la Profetessa Culda, e a Roma per i fondatori della città. Sovente 'Siste Viator/Fermati,pellegrino' sono le parole degli epitaffi romani sulla Via Appia. Il cosiddetto 'Cimitero degli Inglesi' ancora oggi proprietà svizzera venne chiuso nel 1877 in seguito all'abbattimento della cerchia muraria medioevale.

Come appariva il Cimitero fuori della cinta muraria in prossimità della Porta a' Pinti edificata da Arnolfo di Cambio e ricostruita da Michelangelo; il dipinto si riferisce agli anni compresi tra il 1827 e il 1869.

Le tombe più antiche del cimitero sono in stile neoclassico. Sono colonne inghirlandate, talora spezzate, a simboleggiare le morti premature, urne cinerarie, vedove e orfani nel morbido panneggio in marmo bianco, o sarcofagi con le torce capovolte, a riflettere pratiche classiche di seppellimento, assai lontane dalla cristianità. Oppure ricorre l'utilizzo di motivi egizi sotto gli effetti dell'entusiasmo per la spedizione del 1828 di Champollion e Rossellini finanziata dal Granduca. Successivamente, nella seconda metà dell'Ottocento, le tombe divengono più moderne, domina meno il senso di evasione dalla realtà, con la consapevolezza del verbo fatto carne in mezzo a noi, espresso mediante l'utilizzo di croci e ricorrendo alla Sacra Scrittura per le sepolte spoglie mortali. Elizabeth Barrett Browning in Aurora Leigh II.972-976,

Siste, Viator'.
                  'Is there time', I asked,
In these last days of railroads, to stop short:
Like Caesar's chariot (weighing half a ton)
On the Appian road, for morals?'
riprendendo l'immagine da Dante (Purgatorio X), scrive dell'Imperatore Traiano che per riparare ai torti subiti da una vedova si ferma sulla via Appia fiancheggiata da tombe in marmo bianco che recano l'iscrizione 'Siste, viator'. Emily Dickinson serbò cara una fotografia-cartolina del falso sarcofago neoclassico di Elizabeth. Sul sarcofago disegnato da Lord Leighton che manca del nome completo della poetessa (vi si leggono soltanto le iniziali) e della sua vera effige, è, invece, scolpita la figura allegorica della Poesia con il capo cinto dalla corona d'alloro. Emily Dickinson si ispirò a questa immagine e al testo di Aurora Leigh per creare 'The soul selects her own society' (L'anima sceglie i suoi compagni).

Studiando il Cimitero 'degli Inglesi' si è colpiti dalla democrazia della morte, servitù (persino schiavi o servi) e padroni, uomini e donne,   adulti e bambini, riposano gli uni accanto agli altri. Il Cimitero è svizzero, è russo, è di molti altri paesi. Le pietre tombali recano iscrizioni in diversi alfabeti, ebraico, greco, cirillico, romano, in scrittura Fraktur, e in diverse lingue, lingua ebraica, greco, russo, inglese, italiano, francese, tedesco, e romancio. Tutti i paesi europei sono, dunque, rappresentati. Hanno qui trovato sepoltura numerosi americani, un canadese, un Australiano. Persino qualcuno le cui origini sono da ricercare in Tasmania. Forse il monumento più toccante è una bellissima croce ortodossa in marmo bianco per una schiava nera di nome Nadezda, 'Speranza', giunta a Firenze dalla Nubia a quattordici anni d'età.

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L'abbattimento della cerchia muraria determinò la chiusura del cimitero, avvenuta nel 1877, a causa del Codice Napoleonico che vietava le sepolture all'interno della cinta urbana. Al cimitero, dunque, tra il 1869 e il 1870, fu dato un nuovo assetto (si veda immagine sopra); alcune tombe e spoglie mortali furono risistemate, per divenire una sorta di Père Lachaise a Parigi. All'entrata del cimitero furono mantenuti gli alberi cedui (inizialmente gelsi per i bachi da seta) dal tenue colore verde dei rami in contrasto con il verde cupo dei cipressi toscani, dei tassi inglesi e del grande cedro del Libano - posti oltre l'arco - stando a simboleggiare la soglia tra i luoghi dei vivi e il luogo dei morti. Per molti anni il cimitero è stato curato come un giardino all'inglese, con rose, alberi da frutto e piante rare, come attesta il Dalgas, storico del cimitero. Come nei cimiteri inglesi, a ricordo dei due alberi del Tempio di Gerusalemme, due alberi di tasso furono piantati all'entrata del cimitero oltre l'arco, mentre due ciliegi crescevano accanto alla tomba dei discendenti di Shakespeare e a quella del russo Evgen Polyakov. L'area all'entrata era ombreggiata da un maestoso tiglio, come quello descritto da Elizabeth Barrett Browning in Aurora Leigh. I numerosi cipressi che stabilizzavano la collinetta artificiale - nel Medioevo una discarica fuori le mura, che ancora serba miriadi di frammenti di ceramica decorata a mano - immortalati nei 'Sepolcri' di Ugo Foscolo,

Ma cipressi e cedri
di puri effluvi i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l'urne
per memoria perenne, e preziosi
vasi accogliean le lagrime votive.
vivono ne 'L'Isola dei morti' di Arnold Böcklin,
 


Arnold Böcklin, 'Auto-ritratto'

§142. Böcklin/+/ Maria Anna/ Arnoldo/ Svizzera/ Firenze/ 20 Marzo/ 1877/ Mesi 7/ 1387

MARIA ANNA BOECKLIN (1877)
The unmarked grave of a seven-month-old baby recalls the first stay in Florence of Arnold Böcklin (1827-1901), the great painter from Basel, who lived for a time in the neighbourhood of the cemetery. L.S.


'Isola dei Morti', Berlin

Oltre alla già crudele separazione tra la vita e la morte, osserviamo qui in particolare la separazione tra cattolici e protestanti, esempio emblematico il grande sarcofago posto all'entrata del cimitero. E' la tomba di Robina Wilson (1885), sposa di Leopold Cattani Cavalcanti, che reca un'iscrizione bilingue.

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Italian inscription                                                                 English inscription

ROBINA (WILSON) CATTANI CAVALCANTI/ SCOTLAND/ Catani nata Wilson/ Nobinia/ / Inghilterra/ Montecatini/ 28 Luglio/ 1855/ Anni 42/ 568/ Montecatini, Robinia Wilson Catani, Iles Britaniques/ GL23777/1 N°216, Montecatini, cholera, Burial 30/07, Age 41, Rev Gilbert/ ALLA CONSORTE DOLCISSIMA DI ANDREA E DI RACHELLE WILSON D'EDIMBURGO DONNA DI RARO INTELLETTO DI SINGOLARE GRAVITA' DI COSTUME CHE PER XV ANNI TENNE CON PRUDENZA AMMIRABILE IL GOVERNO DELLA FAMIGLIA, IL MARITO LEOPOLDO CATTANI CAVALCANTI CUI FU DELIZIA E SOSTEGNO A TESTIMONIO DEL SUO PERPETUO DOLORE, QUESTO MONUMENTO ERIGEVA, DESOLATISSIMO DI NON POTERE COME LE ANIME IN VITA CONGIUNGERE IN MORTE LE CENERI/ VISSE ANNI XLI M VII G XVIII REPENTINAMENTE MANCO' IL XXVII GIORNO DI LUGLIO NELLA INVASIONE COLERICA DEL MDCCCLV/ AVE ANIMA INCOMPARABILE, LA TUA MEMORIA SARA SEMPRE IN BENEDIZIONE FRA QUANTI AMARONO LE TUE VIRTU// TO HIS MOST BELOVED WIFE ROBINA DAUGHTER OF THE LATE ANDREW AND RACHEL WILSON OF EDINBURGH. A WOMAN OF RARE INTELLECTUAL GIFTS AND SPOTLESS PURITY OF CONDUCT WHO FOR FIFTEEN YEARS ADMIRABLY FULFILLED THE DUTIES OF HER MARRIED LIFE, HER HUSBAND LEOPOLD CATTANI CAVALCANTI, TO WHOM SHE WAS ALIKE SOLACE AND SUPPORT, AS A TESTIMONY OF HIS PERPETUAL REGRET HAS RAISED THIS MONUMENT DEEPLY SORROWFUL THAT WHILE THEIR SOULS WERE UNDIVIDED, THEIR ASHES IN DEATH MAY NOT REST TOGETHER. SHE LIVED XLI YEARS VII MONTHS XVIII DAYS AND WAS SUDDENLY CUT OFF DURING THE CHOLERA EPIDEMIC IN MDCCCLV. HAIL MATCHLESS SOUL, THY MEMORY WILL BE EVER BLESSED AMONGST THOSE WHO LOVED THY LOVED THY VIRTUES/ F3I

A partire dal 1877 si registra un'altra divisione ancora, quella tra due cimiteri, il cimitero di Porta a' Pinti e il cimitero 'Agli Allori', che crudelmente separò le spoglie di mariti e mogli, madri e figli, padri e figlie, in particolare nel caso della famiglia Böcklin, dei Browning, dei Landor. I Powers, gli Spencer Stanhope.

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*MARY SPENCER STANHOPE/ ENGLAND/ Spencer Stanhope/ Maria/ / Inghilterra/ Firenze/ 23 Febbraio/ 1867/ Anni 7/ 972/ Mary Spencer Stanhope, l'Angleterre/ IN MEMORY/ OF MARY/ SPENCER STANHOPE/ BORN NOVR/ 9.1859. DIED/ FEB 23.1867/ "THE LORD IS/ MY SHEPHERD/ I SHALL NOT/ WANT. HE/ MAKETH ME/ TO LIE DOWN/ IN GREEN PAS/TURES. HE/ LEADETH ME/ BESIDE THE/ STILL WATERS"/ Design: John Roddam Spencer Stanhope / E13I
 

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Cimitero "Agli Allori", tomba di John Roddam Spencer Stanhope, che egli stesso scolpì/ John Roddam Spencer Stanhope's tomb sculpted by himself

IN MEMORY OF/ JOHN RODDAM/ SPENCER/ STANHOPE/ ENTERED/ INTO REST/ AUG 2 1908/ AGED 79/ BLESSED ARE/ THE PURE IN/ HEART FOR THEY/ SHALL SEE GOD/ WE SHALL NOT/ ALL SLEEP BUT/ WE SHALL ALL/ BE CHANGED

Questa separazione fu in parte superata piantando arbusti di alloro, a simbolo della fama, della poesia e della speranza, come per le tombe di Walter Savage Landor, di Arthur Hugh Clough, di Leonard Horner, e di Adolfo Mussafia, e come - per desiderio dei genitori, per le tombe dei figli - per Beatrice Campbell Spence e Hope Hayward ('Nostra speranza'). Piantando arbusti di mirto a simbolo dell'amore e della fedeltà sulle tombe russe, richiamando alla memoria la poesia di Pushkin per il caro amico sepolto a Livorno. Una tomba svizzera reca il rilievo di un mirto, mentre l'arbusto, la viva pianta cresceva accanto. Oppure la palma, simbolo della Resurrezione, come sulla tomba di Salvatore Ferretti e della moglie. Gli aristocratici irlandesi e russi accanto alle loro tombe piantarono invece gli esotici oleandri. Un tempo, sulle tombe dei bambini gli archi in ferro battuto erano coperti da rose rampicanti (bagnate al mattino dalla rugiada). La tomba di un conte italiano e quella della moglie inglese sono ancora oggi sotto un arco che fa mostra della forsizia, la prima pianta a fiorire in primavera in questo cimitero. Le diverse piante sono come le parole di un libro. Sono un alfabeto d'amore. Il cimitero ospita 648 tombe, tra sepolture individuali e tombe di famiglia, anche se maggiore è il numero dei sepolti (1409 fino al 1877): 160 tombe necessitano di restauro, 335 necessitano dell'intervento di pulitura. Per 36 tombe è anche necessario un lavoro di ricerca sulle iscrizioni sepolcrali. Le ottocentesche recinzioni decorative in ferro battuto di 108 tombe necessitano di un intervento di restauro conservativo. Successivamente, vale a dire dal 1877 ad oggi, il cimitero ha accolto 41 urne cinerarie. E' ancora oggi proprietà della Chiesa Evangelica Riformata Svizzera, anche se comunemente noto come 'Cimitero degli Inglesi'.

Nel Giubileo del 2000, il Cimitero 'degli Inglesi' diviene la sede di una biblioteca. Il patrimonio librario della biblioteca inizia con l'alfabeto e la Bibbia e termina con piccolissimi salteri ebraici che i bambini adorano. Nello stile di William Morris alla biblioteca è connessa una bottega, dove si stampano e rilegano libri composti al computer, e possono essere in parte eseguiti gli interventi di restauro sulle pietre tombali. La biblioteca, la bottega e i convegni su 'La città e il libro', sono dedicati alla memoria di Fioretta Mazzei. Dei tre convegni internazionali su 'La città e il libro', il primo era incentrato su 'L'alfabeto e la Bibbia', il secondo su 'Il manoscritto, la miniatura'. Quest'ultimo, il terzo della serie, è dedicato alle iscrizioni sepolcrali del Cimitero "degli Inglesi" che sovente citano passi tratti dalla Bibbia, in diversi alfabeti e in diverse lingue. Negli Atti del convegno le personalità storiche sono nostre fonti primarie, le epigrafi sulle tombe in marmo e pietra serena, così come le notizie d'archivio sui sepolti sono materiale secondario. Ciascun sepolcro è custode di vite, ogni saggio una conversazione ipertestuale e digitale, una 'eloquenza silenziosa' tra noi e coloro i quali non ci sono più.

In origine era nostro intento dedicare questo convegno al libro a stampa, terzo della serie su "La città e il libro. In particolare ai libri europei e americani su Firenze e ai libri scritti in questa città come un "aureo anello fra Italia e Inghilterra". Il Paradise Lost di Milton, Casa Guidi Windows e Aurora Leigh di Elizabeth Barrett Browning, Romola di George Eliot, Mornings in Florence di John Ruskin, The Ring and the Book di Robert Browning, The Marble Faun di Nathaniel Hawthorne, L'idiota di Dostoevskij. Tutti questi aspetti convergono nella mostra 'Firenze in seppia' - della quale è stato creato anche un CD - e si riflettono nelle nostre visite a Casa Guidi, a Villa Landor, al castello di Vincigliata, a Vallombrosa, a Villa Brichieri e Villa Lo Strozzino a Bellosguardo. Il convegno e il congiunto lavoro di ricerca ricalcano le orme del Pastore Dalgas e del Pastore Santini con le loro pubblicazioni sul Cimitero 'degli Inglesi', e prendono a modello le guide sui giardini di Firenze, sugli edifici sacri e i cimiteri non cattolici. I testi compaiono tutti in bibliografia.

Il lavoro di ricerca sui monumenti e il restauro del Cimitero 'degli Inglesi' sono intrisecamente interdisciplinari. Letterariamente questi monumenti appartengono al genere dell'epitaffio, che gli studiosi italiani nei loro contributi indicano con il termine generico 'epigrafe'. Epigrafi che - invece di essere trasmesse in forma di libri o riviste raccolti e custoditi in chiuse biblioteche - sono scolpite sulla pietra all'aperto, seguendo la più antica forma di trasmissione culturale e coniugando scultura e parole in marmo. E' utilizzato un linguaggio simbolico, visuale e verbale, combinando pietra, piante, e testi. I saggi che seguono sono corredati dalle immagini digitali (con l'impiego di una tecnica elettronica modernissima nella ricerca e nel ricordo del passato) dei sepolcri e dalle trascrizioni degli epitaffi.
 

Julia Bolton Holloway
Cimitero 'degli Inglesi'


L’INTERNAZIONALITÀ DI FIRENZE: IL RICORDO DI VIEUSSEUX NEL CIMITERO DETTO ‘DEGLI INGLESI’

COSMOPOLITAN FLORENCE: VIEUSSEUX'S MEMORIAL IN THE 'ENGLISH' CEMETERY

MAURIZIO BOSSI


GIOVAN PIETRO VIEUSSEUX/SVIZZERA/ Vieusseux/ Gio: Pietro/ Pietro/ Svizzera/ Firenze/ 28 Aprile/ 1863/ Anni 83/ 828/ Jean Pierre Vieusseux, Genève, rentier, fils de Pierre Vieusseux et de Jean Elisabeth, née Vieusseux/ [Portrait Medallion, Oak, Olive, Bracken Tendrils]/ [Swiss Cross]/ A8O(107)

JEAN PIERRE VIEUSSEUX (1780-1863). Fra le personalità delle quali si conserva il ricordo in questo cimitero, è certo quella a cui Firenze e l'Italia debbono di più. La sua tomba, riordinata in occasione del centenario della morte, è sulla destra di che entra nel camposanto. J.P. Vieusseux, ginevrino di famiglia esulata della Francia per cause di religione, nacque a Ongelia, dove la famiglia esercitava un commercio; avviato egli stesso ai commerci, viaggiò a lungo, facendosi una rara esperienza umana e pratica. Si stabili a Firenze all'indomani della Restaurazione e divenne organizzatore della cultura: così egli contribuiva alla formazione d'un comune patrimonio ideale per la nazione risorgente. Attorno alle sue riviste, alle iniziative editoriali, si raccolse il meglio della cultura d'ogni regione italiana: uomini diversi per temperamento e preparazione imparaono a stimarsi, a collaborare una crescita comune. Palazzo Buondelmonte, in piazza S. TRinita, ospitò quel Gabinetto di Lettura che richiamò ingegno, divenne una finestra aperta sul mondo, utile a sprovincializzare le intelligenze del paese e a diffondere i motivi del irorgimento nazionale. Il Vieusseuc fu estraneo alla brillante società anglo-fiorentina; le sue amicizie erano fra i connazionali della Chiesa ev. riformata e gli italiani impegnati culturalmente. Su di lui e sulla sua attività v'è una ampia pubblicista. Non fosse che per il solo nome di J.P. Vieusseux, questo cimitero è monumento d'un amore, d'una appassionata dedizione alla causa della nuova Italia che ebbe in Firenze il suo centro ideale. L.S.


re anni dopo la fondazione a Firenze del Gabinetto Scientifico Letterario che porta il suo nome, Giovan Pietro Vieusseux riceveva da un suo corrispondente di Tolone, de Lareinty, una lettera, datata 12 settembre 1822 (e oggi conservata presso la Biblioteca Nazionale di Firenze), nella quale si esprimeva sorpresa per la scelta della tranquilla capitale del Granducato di Toscana come sede del suo operare: vi pensavo, dice de Lareinty, “a Odessa, forse in Persia o in India, tanto conosco la vostra capacità di concepire e il vostro coraggio e la vostra volontà per realizzare”.

Poteva quindi sorprendere, chi conosceva  il mercante di origine ginevrina, la scelta che Vieusseux aveva fatto, perché le sue doti ne facevano per costituzione uno dei veri viaggiatori della sua epoca. Erano in suo possesso infatti i requisiti ripetuti fondamentali di abnegazione e di credibilità nelle osservazioni, requisiti ripetuti fino alla consunzione dell’ovvio, dai periodici di primo Ottocento a proposito di chi percorreva il globo per conoscerlo e farlo conoscere. E dato che i periodici dovevano vendere, si trattava evidentemente di doti ritenute interessanti e vitali dal pubblico dei lettori.

I viaggi che Vieusseux aveva compiuto in Nord Europa, in Russia, Turchia e in Nord Africa prima della fondazione del Gabinetto nel 1819 erano viaggi legati al commercio; viaggi di dovere, quindi, condotti senza disconoscere la fatica che comportava attraversare contrade disagiate per contribuire al bene comune, al cammino della civiltà, in una visione morale del commercio come capace di favorire un proficuo intreccio tra i popoli.

Sulla scorta di questi trascorsi, il mondo che il ginevrino Vieusseux porta con sé a Firenze è un mondo che vede nell’agire e nel confronto quotidiano con le esperienze condotte in Europa la possibilità della costruzione di una società armoniosa, e che in questa direzione ben si amalgama con gli esiti della politica condotta nel secondo Settecento dal granduca Pietro Leopoldo.

Alessandro Volpi nel suo intervento in questo convegno illustra quanto abbia contato la cultura svizzera per Firenze e per la Toscana, e come essa si esprimesse attraverso presenze che coprivano una vasta gamma di ceti, dai più umili ai più influenti. Qui quello che mi importa sottolineare è come l’internazionalità, questo termine che può essere così ambiguo, si presti a molteplici interpretazioni, ben rappresentate dalla varietà di tombe del Cimitero degli Inglesi.

Sono certo internazionali i valori rappresentati da Firenze, ma diversi sono i modi di riferirsi a questa internazionalità. Vi è un modo, ancora oggi così influente sulle scelte della città, che consiste
nell’‘appropriarsi’, come è successo nel caso di tanta parte della cultura occidentale, della storia di Firenze e della sua civiltà e del suo potenziale simbolico, interpretandoli in forma funzionale al sogno di immedesimazione con un immaginario ispirato da un medioevo e da un rinascimento che hanno raggiunto vertici difficilmente eguagliabili.

Di questa prospettiva vi sono stati esempi di grande valore intellettuale, che hanno contribuito fortemente a rendere Firenze un riferimento imprescindibile per la cultura occidentale, come nel caso di un Ruskin o di un Burckhardt.

Un’immedesimazione, però, per la quale gli abitanti costituiscono talvolta quasi un disturbo alla contemplazione della bellezza e del sogno del passato. Tanto forte e persistente nel tempo, questo atteggiamento, da motivare nel secondo dopoguerra la nota polemica tra Bernard Berenson e Ranuccio Bianchi Bandinelli circa la scelta se la Firenze distrutta dalle bombe dovesse essere ricostruita integralmente per salvare – come sosteneva Berenson -  “l’immagine mnemonica” conservata per generazioni, così che il ‘forestiero’ possa contemplarla “quale emanazione di pura bellezza”, come nelle cartoline che i turisti conoscevano, oppure - sosteneva Bianchi Bandinelli - debbano contrapporsi alle “ragioni sentimentali” di chi vuol rivedere i Lungarni “come erano fissati negli acquerelli dei turisti romantici” le ragioni di chi rivendica il diritto di vivere entro una città viva, che segue le vicende della storia umana che vi si svolge.

Ma vi era all’epoca di Vieusseux un modo di entrare nella vita della città, grazie alla capacità di accoglienza che essa garantiva soprattutto con la sua tolleranza religiosa, attingendo al suo primato, ai suoi elementi di richiamo, nutrendone il proprio operare, per modificarla attraverso una quotidiana attività. Considerarla cioè viva, e non solo un’icona intangibile. E’ questa la fonte di un cosmopolitismo inteso come sintesi di esperienze di varia provenienza, in un confronto che ricerca gli elementi più vitali che la città offre, portando dialetticamente il contributo delle diverse identità.

L’arrivo di Vieusseux a Firenze si configura in questo senso, e trova il suo ambito specifico in una concreta iniziativa che tiene conto delle effettive potenzialità e carenze della città. Nel suo manifesto di apertura del Gabinetto Vieusseux elenca i molteplici caratteri di attrazione di Firenze per i forestieri (opere d’arte, biblioteche, bellezza della natura circostante), ma sottolinea che le manca un fondamentale elemento di attrazione per gli stranieri che intendano fermarvisi più a lungo che per una rapida visita: la possibilità di disporre di libri e periodici nelle rispettive lingue. Occorre quindi intervenire lì dove si manifesta la più grave, ai suoi occhi, carenza della città, esemplare in questo di una più generale e grave carenza italiana, ovvero un mercato librario che possa veicolare idee e prospettive capaci di stimolare una crescita, favorendo quei contatti e quei confronti che soli possono garantire fertili iniziative. Creare quindi un punto di attrazione per i forestieri e di apertura alla realtà esterna per i fiorentini: ai suoi corrispondenti fuori d’Italia Vieusseux chiede di indirizzare chi passi da Firenze al suo Gabinetto, perché vi troverebbe nelle riunioni che vi si svolgono la possibilità di interessanti incontri.

Da questa volontà di trasformare il tessuto interno della città nasceva quel fecondo incontro con le migliori energie e intelligenze italiane e straniere che ha portato a iniziative in cui sempre si colloca come elemento di stimolo e di raccolta il Gabinetto di Vieusseux: gli asili per l’infanzia, il mutuo insegnamento, le casse di risparmio per i lavoratori, le innovazioni nell’agricoltura. Tutto, cioè, quel tessuto di vita civile che mutua le più innovative esperienze degli altri paesi in un confronto che sostanzia un reale cosmopolitismo. Questo in sintesi è il senso della presenza di Vieusseux a Firenze, che motiva l’epigrafe sulla sua tomba, decorata di alloro e quercia, epigrafe che ricorda i suoi meriti per la civiltà italiana.

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A GIAMPIETRO VIEUSSEUX
NATO IN ONEGLIA DI FAMIGLIA GINEVRINA
IL XXVIIII DI SETTEMBRE MDCCLXXVIIII
MANCATO IN FIRENZE IL XXVIII D'APRILE MDCCCLXIII
GLI AMICI ED ESTIMATORI
DEI MOLTI SUOI MERITI VERSO LA CIVILTA' ITALIANA
POSERO QUESTO MONUMENTO

Ma il vero monumento all’idea di internazionalità che Vieusseux ha rappresentato è costituito dalla biblioteca formatasi nel suo gabinetto di lettura, che va letta nel suo insieme come una viva raccolta, (fortemente caratterizzata alle sue origini dai valori del liberalismo ginevrino) delle speranze, delle prospettive e anche delle sofferenze di un’epoca, con le quali Firenze ha potuto strutturalmente confrontarsi grazie all’opera di Vieusseux, in un effettivo cosmopolitismo che ancora oggi può esserci di insegnamento.
 

© Maurizio Bossi, 2004


TUONI DI BIANCO SILENZIO: UN CIMITERO COME BIBLIOTECA E COME ARCHIVIO

ALLA MEMORIA DI GIULIANA ARTOM TREVES, FIORETTA MAZZEI E NICCOLO' MICHAHELLES

JULIA BOLTON HOLLOWAY


ELIZABETH BARRETT BROWNING/ JAMAICA/ENGLAND/ 79. Barrett Browning/ Elisabetta/ / Inghilterra/ Firenze/ 29 Giugno/ 1861/ Anni 45 [incorrect, 55]/ 737/ Elisabeth Barrett Browning, l'Angleterre, agé de 45 ans/ [marble with leading, design, Lord Leighton, execution, Luigi Giovanozzi (1791-1870), sculptor of Duchess of Albany's tomb, Santa Croce, who signs the work to the bottom left]/ GL23777/1 N°293 Burial 01/07 Rev O'Neill; Anthony Webb: heart attack, morphine poisoning; Freeman, 236-23/ Q459: 271 Paoli/ Q479, payment to Ferdinando Giorgi for burial was for two graves, '2 fosse, una delle quali già valutata quando verrà messa in opera', 90 Paoli, invece dei normali 45 Paoli, E.B.B./ OB.1861./ E12I

ELISABETH BARRETT BROWNING(1806-1861). Nel suo nome sembra riassumersi l'Ottocento romantico anglo-fiorentino. Il suo sarcofago è ben visibile sulla sinistra, appensa s'entra nel camposanto; progettato dal marito Robert Browning con Frederic, Lord Leighton, fu eseguito da Luigi Giovannozzi (1791-1870), lo stesso che con E. Santarelli fece in S. Croce il monumento alla contessa d'Albany. Figlia di un ricco possidente della Giamaica stabilitosi in Inghilterra, Elisabet era figgita di casa per sposare il poeta Robert Browning, al quale era legata da profonde affinità electtive. Nell'aprile 1847 si stabilavano a Firenze, prima in un palazzo all'angolo di Piazza S.M. Novella, quindi sulla piazzetta di S. Felice, all'angolo di Via Maggio, in quella Casa Guidi che tornerà così spesso nella sua corrispondenza, nella sua poesia. Dalla sua vasta opera letteraria non traspare la solida cultura classica di cui era fornita: seppe dire con felice invenzione la gioia serena di vivere, di amare la persona, i luoghi, il popolo italiano insorto a libertà. I suoi interessi sociali e politici, alimentati dal contatto con personalità d'ogni nazione, la fecero portavoce e paladina della causa italiana nel mondo anglosassone. Era amica di Cavour e del Ricasoli, appassionata sostenitrice di Garibaldi e delle sue imprese. Da Casa Guidi passarono W.B. Kinney e sua moglie, W.C. Bryant, mentre lunga amicizia la legava alla Blagden, ai Hawthorne, ai Trollope. Tutta una splendida, indimenticabile pagina dell'amore vero del mondo anglosassone per Firenze si riassume nel nome di E.B. Browning: Voglio bene a Firenze, non posso lasciare Firenze, ripeteva ancora negli ultimi giorni di vita. E Firenze la accoglie per sempre. L.S.


 
                         The sculptor's Night and Day
And Dawn and Twilight, wait in marble scorn
. . .
  The final putting off of all such sway
By all such hands, and freeing of the unborn
  In Florence and the great world outside his Florence
That's Michelangelo.

Elizabeth Barrett Browning, Casa Guidi Windows I.73-80

1n San Lorenzo Michelangelo coniugò biblioteca e tombe, marmo bianco di Carrara e pietra serena. Elizabeth ben conosceva i versi di Strozzi e Michelangelo contro la tirannia dei Medici affinché le statue sepolcrali parlassero e sia in Casa Guidi Windows sia nel suo poema epico in nove libri, Aurora Leigh si ispirò alla figura dell'Aurora di Michelangelo.1

La famiglia di Elizabeth Barrett Moulton Barrett era proprietaria di schiavi in Giamaica, da qui l'odio profondo di Elizabeth per ogni forma di schiavitù. Sin da bambina conosceva l'ebraico e il greco, e sposando la poesia di Byron scrisse contro l'oppressione dei bambini e delle donne, nelle miniere e nelle fabbriche, degli africani in catene, dei russi in schiavitù, e delle nazioni sotto il giogo straniero, della  Grecia prima, dell'Italia poi. Il 1846 è l'anno della fuga con Robert Browning dalla tirannia paterna verso la 'bella libertà' del Risorgimento italiano che celebrò in Casa Guidi Windows.

Il sepolcro che Lord Leighton disegnò quindici anni dopo per la moglie di Robert Browning, raffigura sulla faccia anteriore un cammeo a simboleggiare la Poesia, il capo cinto dalla corona d'alloro. Sugli altri tre lati osserviamo bassorilievi di lire e arpe, su una lira posano delle catene spezzate. E' anche decorato con ramoscelli d'ulivo, gigli, cardi, rose e trifogli, che simboleggiano l'Italia e le Isole Britanniche, mancano, invece, le melagrane che lei e Robert tanto amarono nella loro poesia e che rimandano alla discendenza in parte ebraica di lui. Il sepolcro manca della sua effige e del nome completo. Robert Browning non è sepolto accanto alla moglie a Firenze, ma in Westminster Abbey, dove, dopo la morte avvenuta a Venezia nel 1889, le sue spoglie furono traslate solennemente nell''Angolo dei Poeti'.

Per il suo ruolo di profetessa d'Europa Elizabeth Barrett Browning si ispirò a Madame de Staël e al suo libro Corinne ou l'Italie. Madame de Staël, che prese questo nome dal matrimonio con un diplomatico svedese, figlia di Susanne Curchod, fu allevata dal banchiere e politico Jacques Necker come fosse sua figlia. Sia Curchod sia Necker erano svizzeri, anche se il padre avrebbe potuto  essere lo storico inglese Edward Gibbon, amante di Susanne Curchod e autore di The Decline and Fall of the Roman Empire e della eccellente Autobiografia dove racconta di come concepì l'idea di quella magnum opus sul Colle Capitolino a  Roma, lo stesso scenario che Madame de Staël sceglierà per le profezie di Corinne. Le trame del romanzo Corinne ou L'italie e del poema epico Aurora Leigh sono fondamentalmente identiche. Uno dei primi ritratti di Elizabeth Barrett Moulton Barrett la raffigura nella stessa posa di Corinne ad opera di Gérard, anche questo dipinto è un ritratto della Staël, salvo che la giovane fanciulla è ritratta intenta a scrivere, la donna più matura canta accompagnandosi con la sua arpa. Quella stessa arpa sarà scolpita sul sepolcro di Elizabeth Barrett Browning. Le tre arpe sulla sua tomba stanno a simboleggiare il mondo ellenico, ebraico, e cristiano, in ciascuno dei quali ella è profetessa.

Gerard, Corinne au cap Misène

Una cerchia di amici, poeti e artisti, riposano insieme nel cosìddetto Cimitero 'degli Inglesi' di proprietà svizzera, Elizabeth Barrett Browning (1861), Arthur Hugh Clough (1861), Frances Milton Trollope (1863) e Theodosia Garrow Trollope (1865); il padre di Theodosia, Joseph Garrow (1857), la sua sorellastra, Harriet Theodosia Fisher (1848), avevano già trovato sepoltura qui. A queste tombe si aggiunsero i sepolcri di Walter Savage Landor (1864), Isa Blagden (1873) e Hiram Powers (stesso anno).
 

Holman Hunt's wife in Florence modelling for John Keats' Isabella and the Pot of Basil during their honeymoon.
 


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*§ +/ FANNY WAUGH HUNT/ ENGLAND/ (Wough)[Waugh]/ Holman Hunt]/ Fanny/ / Inghilterra/ Firenze/ 20 Dicembre/ 1866/ Anni 33/ 959/ Fanny Wough Hunt, l'Angleterre/ [Freeman, 227-230]/ [Written in Medallions on Coffin with Pelican in its Piety, Lilies, at each End, Floating on Water, on the Waves of the Sea]

WHEN THOU 
PASSEST THRO
THE WATERS
I WILL BE WITH THEE
AND THRO THE FLOODS
THEY SHALL NOT 
OVERFLOW
THEE
IT IS 
         BE NOT AFRAID
LOVE
IS STRONG AS 
DEATH
MANY WATERS CANNOT 
QUENCH LOVE 
NEITHER CAN THE
FLOODS DROWN 
IT
                          [Isaiah 43.2]                                        [Matthew 14.27]                            [Song of Solomon 8.6-7]
//[on plaque at base] FANNY/ THE WIFE OF/ W. HOLMAN HUNT/ DIED IN FLORENCE DEC 20 1866/ IN THE FIRST YEAR OF HER MARRIAGE/ Holman Hunt, Sculptor/ E13I
[See Biblioteca e Bottega Fioretta Mazzei acquisitions]

FANNY WAUGH HUNT (1833-1866)

Morì a trentatre anni, quand'era sposa da appena un anno . . . .  Il marito stesso volle fare il suo sarcofago, collocato vicino a quello della Browning. Holman Hunt (1827-1910), il marito, aveva guidato i primi passi di Dante G. Rossetti, con lui aveva fondato nel 1848 giovanissimo quella Pre-Raphaelite Brotherhood così affascinata dalla Firenze dei primitivi, del medioevo crudo e sognante. Non poche pitture dello Hunt furono accolte nella Royal Academy di Londra. L.S.


Due nomi della Confraternita Preraffaellita sono legati al Cimitero "degli Inglesi", quelli di Holman Hunt e John Roddam Spencer Stanhope che scolpirono due dei sepolcri. Holman Hunt il sepolcro per la moglie Fanny Waugh Hunt (1866) posto accanto al sarcofago di Elizabeth. Fanny morì di parto, ed egli dopo averne sposato la sorella perché allevasse il loro bambino, sopravvissuto alla madre, se ne andò a dipingere in Terra Santa. Durante la gravidanza di Fanny egli la ritrasse come 'Isabelle with the Pot of Basil' ('Isabella e il vaso di basilico') ispirato dalla poesia di John Keats. In un altro suo ritratto è riccamente vestita, anche se il volto è visibilmente il volto di una giovane donna morente. Fra le tele di Holman Hunt realizzate in Terra Santa troviamo 'The Scapegoat' ('Il capro espiatorio), dipinta sulle rive del Mar Morto. John Roddam Spencer Stanhope scolpì il sepolcro della figlioletta Mary di sette anni d'età. Anch'ella riposa accanto a Elizabeth.

Hiram Powers è sepolto vicino ai suoi amici. Scultore di genio americano (in parte indiano americano). I suoi soggetti sono, in genee, figure di donne in pose allegoriche: 'The Greek Slave' è una figura muliebre nuda, in marmo bianco di Carrara, imprigionata dai turchi, che tiene stretto in mano un rosario; 'The Last of her Tribe', una fanciulla indiano americana, che porta fini mocassini, colta nell'atto di fuggire dai suoi catturatori e violentatori bianchi; 'America', raffigurata come una donna classicamente modellata dal gioco del panneggio e di maggior pregio della Statua della Libertà in quanto autenticamente americana e non francese. In toghe classicheggianti scolpì anche i presidenti americani. Hiram Powers intraprede la sua carriera a Cincinnati realizzando cere della Commedia di Dante per Fanny Trollope. Elizabeth scrive il suo sonetto "Hiram Powers' Greek Slave" come se fosse un epigramma dell'Antologia Palatina, ispirandosi alla più famosa opera di Powers, esposta al centro del Crystal Palace per l'Esposizione Universale e ammirata anche dalla Regina Vittoria appoggiandosi al braccio del Principe Consorte.

          Hiram Powers’ Greek Slave

          They say Ideal Beauty cannot enter
          The house of anguish. On the threshold stands
          An alien Image with the shackled hands,
          Called the Greek Slave: as if the sculptor meant her,
          (That passionless perfection which he lent her,
          Shadowed, not darkened, where the sill expands)
          To, so, confront men’s crimes in different lands,
          With man’s ideal sense. Pierce to the centre,
          Art’s fiery finger! – and break up erelong
          The serfdom of this world! Appeal, fair stone,
          From God’s pure heights of beauty, against man’s wrong!
          Catch up in thy divine face, not alone
          East griefs but west, - and strike and shame the strong,
          By thunders of white silence, overthrown!

In the Collection of the Corcoran Gallery of Art. Gift of William Wilson Corcoran.

      La schiava greca di Hiram Powers

            Dicono che la Bellezza ideale non possa entrare
            nella casa d'angoscia. Una figura straniera sta
            sulla soglia, con le mani incatenate,
            la Schiava greca: come se lo scultore eleggesse lei,
            (Quella perfezione impassibile che egli le diede,
            ombreggiata, non oscurata, là dove la soglia si apre)
            per misurare i crimini degli uomini in diversi lidi,
            con ogni ideale dell'uomo. Penetra nell'intimo,
            infuocato dito dell'arte! - e presto spezza
            la schiavitù di questo mondo! Appellati, bella pietra,
            dalla pura sommità della bellezza di Dio, contro il male dell'uomo!
            Cattura nel tuo volto divino, le pene
            e dell'oriente e dell'occidente, - e colpisci e umilia i forti,
            da tuoni di bianco silenzio sconfitti!


KALIMA NADEZDA DE SANTIS/ NUBIA/RUSSIA/ Desantis (Speranza [=Nadezda])/ Kalinna/ / Russia/ Firenze/ 25 Agosto/ 1851/ Anni 38/ 464/ De Santis, Kalima Nadezda [Kalima was born in Nubia, likely a black slave, was brought to Florence in 1827, freed, baptised 'Nadezda', 'Hope', married, died a lady in Florence; her tomb with Greek Orthodox cross in stone, Cyrillic inscriptions, is near that of Hiram Powers, American Indian sculptor of the 'Greek Slave'; Talalay: 27.8.1851, N° 464, RC; Epitaffio: 'Zdes' pokoitsja telo/ negritjanki Kalimy/ vo Sv. Kresenii Nadezdy/ privezennoj vo Florenciju/ iz Nubii v 1827 godu/ Primi mja Gospodi/ vo Carstvie Tvoe'/Qui giaciono le spoglie mortali della nera Kalima, nel Santo/ Battesimo chiamata Nadezda (Speranza) che è stata portata a Firenze dalla Nubia nel 1827, . . . 1851, Accoglila Signore nel Tuo Regno/ E17E


Un'altra tomba, vicino al sepolcro di Hiram Powers e al sarcofago di Elizabeth Barrett Browning, con l’iscrizione in cirillico sul basamento di una croce in marmo, narra la storia di una certa 'Nadezda', 'Speranza', nativa della Nubia, schiava nera giunta a Firenze a quattordici anni d'età, per morirvi trentenne (1851).

Sovente le statue sono figure di donne silenziose scolpite in marmo bianco, 'Speranza', o 'Fiducia in Dio', ad opera di scultori vicini ad Hiram Powers.
 

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ARNOLD SAVAGE LANDOR/ ENGLAND / Landor/ Arnold/ [Savage]/ Inghilterra/ Firenze/ 6 Aprile/ 1871/ Anni 52/ 1127/ Arnault Landor, l'Angleterre/ Freeman incorrectly identifies as Fanny Trollope, 237-239/ SACRED TO THE MEMORY OF ARNOLD SAVAGE LANDOR ESQ./ BORN 5TH OF MARCH 1818/ DIED 2nd OF APRIL 1871// M. AUTERI POMAR 1873// M. AUTERI POMAR 1873/M.Auteri Pomàr [Sculpted figure of grieving wife, back turned to and farthest from Republican father-in-law's tomb, the coat of arms and the crest of a 'savage']/ A4T(69)/ M.Auteri Pomàr/


E' in marmo bianco anche la vedova di Walter Savage Landor vestita in gramaglie, l'anello d'oro al dito ostentatamente in risalto.
 

Uno scultore giocosamente trasforma il marmo bianco in legno marcio. Delicati papaveri, gigli, edera, la verità celando con una bella menzogna. Sempre suo il rilievo in marmo bianco di un mirto su una tomba svizzera. Accanto il verde della viva pianta.

Richiamiamo alla memoria l'epitaffio greco: 'La morte è la libertà dello schiavo', e i versi di un sonetto di Shakespeare: 'gigli che marciscono puzzano assai peggio che erbacce'. Elizabeth, in quanto donna,  non aveva accesso al Gabinetto Vieusseux, ma veniva a conoscenza degli eventi del mondo, dei mali e dei diritti dell'uomo, tramite la mediazione del marito che godeva il privilegio della lettura dei giornali, all'epoca altrimenti controllati e tacitati dalla censura del Granduca.

Il primo Duca di Firenze, Alessandro dei Medici, le cui ossa hanno trovato sepoltura in una delle due tombe scolpite da Michelangelo, era egli stesso figlio di una schiava nera, Simonetta. Maurice (Moisé) Baruch riposa qui. Gli diede qui sepoltura il Reverendo anglicano Tottenham e la tomba reca un'scrizione in inglese e tedesco, quest'ultimo in scrittura Fractur (1867). Molte delle donne ex patriote della colonia anglo-fiorentina erano di sangue misto, dunque, non del tutto degne di contrarre matrimonio nella 'rispettabile' società inglese, per la diversità di colore della pelle e per le loro altre fedi. La stessa Elizabeth ricordava i suoi antenati schiavi, mentre Isa Blagden e Theodosia Garrow Trollope avevano in parte origini ebraiche, e in parte le loro radici andavano ricercate nelle Indie Orientali. Nathaniel Hawthorne fonde il carattere di quest'ultime due donne nell'esotico e bel personaggio di Miriam in The Marble Faun.2

Per una ‘rilettura’ di queste donne che vada oltre i loro sepolcri, che coniugano croci e rose in marmo, il modo migliore è osservare le foto dei Trollope a Firenze: Fanny nella sua sedia da invalida avvolta nello scialle a scacchi, la bella Theodosia e la sua bambina Bice che gioca accanto a lei.
 

Oppure osservare il ritratto di Elizabeth Barrett Browning di Michele Gordigiani (vicino al Cimitero 'degli Inglesi' esiste ancora il suo studio), conservato alla National Portrait Gallery a Londra, e attualmente esposto agli Uffizi.

Gli scrittori amavano l'ospitalità di Isa Blagden a Villa Brichieri a Bellosguardo; Elizabeth inserisce quello scenario in Aurora Leigh, Nathaniel Hawthorne in The Marble Faun; anche Henry James ne scrive in William Wetmore Story and his Friends. In esilio a Firenze essi si sentivano nella città a proprio agio. Così scrive Elizabeth nel 1857 sulla veduta dalla terrazza di Bellosguardo:

     On April 6 we had tea out of doors on the terrace of our friend Miss Blagden, in her villa up at
     Bellosguardo (not exactly Aurora Leigh’s, mind). You seemed to be lifted up above the world
     in a divine ecstacy. Oh, what a vision!

John Brett, Firenze da Bellosguardo, 1863, dipinto dopo aver letto Aurora Leigh
Il Cimitero Ebraico sulla sinistra fuori le mura. Per gentile concessione di Patricia O'Connor, PRS

     Il sei aprile abbiamo preso il tè all'aperto sulla terrazza della nostra amica Miss Blagden, nella
     sua villa sul colle di Bellosguardo (bada bene, non quella di Aurora Leigh). Sembrava di essere
     innalzati al disopra del mondo in una estasi divina. Che visione!
 

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Sulla tomba del figlio di un patriota ungherese, l'esule, Gyula Pulszky (1863), è scolpito il rilievo raffigurante quella veduta di Firenze dal colle di Montici.

L'interno della casa di Aurora è quello della stanza in Casa Guidi, in via Maggio, dove Elizabeth scrisse, e di cui Mignaty realizzò un dipinto commissionato da Robert Browning così com'era alla morte dI lei. E' la stanza di uno scrittore, dalle pareti di colore verde intenso, libri sul tavolo, giocattoli sparsi sul pavimento, in quanto questo scrittore è anche madre. I figli di Giorgio Mignaty, Demetrio e Elena, hanno trovato sepoltura all'ombra degli alti cipressi di questo Cimitero detto 'degli Inglesi', davvero internazionale ed ecumenico. Tre dei figli di Hiram Powers condividono un'unica tomba. Sia Theodosia sia Bice morirono giovani. Tragicamente, nel cimitero sono numerosissime le tombe di bambini molto piccoli. Le bambine solitamente portano il nome di 'Florence', come la figlia di Hiram Powers. Southwood Smith, amico di Florence Nightingale (Firenze fu sua città natale), è sepolto qui. L'epitaffio sulla sua tomba è di Leigh Hunt e difende la grande importanza dell'aria fresca e dell'igiene nelle abitazioni. Lo zelo degli appartenenti a questa cerchia fu tale che il loro operato porterà a debellare malattie e morti premature. Altri sepolcri accolgono le spoglie mortali di storici abolizionisti, archivisti, predicatori e filologi.3 Riposa qui Theodore Parker (1860), predicatore contro la schiavitù in America. Più tardi (1886) Frederick Douglass, schiavo affrancato, giunse a Firenze con l'intento di rendergli omaggio e ne visitò la tomba. Sulla tomba dello storico ebreo Robert Davidsohn, sovente osserviamo oggi i tradizionali sassolini lasciati come segno di preghiera. Nativo di Danzica (1937), i suoi numerosi volumi, frutto del meticoloso lavoro di ricerca sui documenti della Firenze medievale custoditi negli archivi, descrivono minutamente la libertà costituzionale della Repubblica fiorentina prima della tirannia dei Medici. Il Cimitero 'degli Inglesi' è un cimitero ecumenico e cosmopolita.

Siamo una porta per il passato e per il futuro, di vite che ingannano la morte con i sepolcri e la poesia. Siamo una biblioteca e un archivio che custodiscono libri e documenti sulla libertà scritti in marmo. Le iscrizioni sepolcrali sono sovente versetti tratti dalla Bibbia, in diversi alfabeti e in diverse lingue: ebraico, greco, russo, romancio, francese, tedesco, italiano, inglese, in una ritrovata libertà religiosa incarnata da un Cimitero non cattolico. In epoca antecedente soltanto i cattolici e gli ebrei praticanti potevano trovare sepoltura a Firenze, non i protestanti, non gli ortodossi. Le loro spoglie, prima del 1827, dovevano essere trasportate a Livorno. Fino al Concilio Vaticano II, non era concesso possedere la Bibbia in una lingua diversa dal latino. Nel cimitero, invece, le nipotine possono lodare la loro nonna citando in romancio parole dal Libro di Giobbe. Oggi, nel cimitero, tuttora proprietà svizzera, possono essere accolte le urne cinerarie di cattolici e protestanti. Richiamiamo alla memoria che gli antichi greci dipingevano i loro marmi con splendidi colori carnicini. Così noi nella lettura dei libri scritti da coloro i quali amarono Firenze quando nella città dimorarono, trasformeremo il freddo marmo nuovamente in calda carne. Muteremo il chiaroscuro in seppia. Nel verde dell’alloro. Nei colori dell'arcobaleno. 'O bella libertà' canta il bambino sotto Le finestre di Casa Guidi, dove un altro bimbo, il figlio anglo-fiorentino di Elizabeth, sarebbe presto nato.


 
 

NOTE

1 'C'est dans cette cathédrale que Julien de Médicis a été assassiné; non loin de là, dans l'église de Saint-Laurent, on voit la chapelle en marbre . . . où sont les tombeaux des Médicis et les statues de Julien et de Laurent, par Michel-Ange. Celle de Laurent de Médicis, méditant la vengeance de l'assassinat de son frère, a mérité l'honneur d'être appelée la pensée de Michel-Ange. Au pied de ces statues sont l'Aurore e la Nuit; le réveil de l'une, et sur-tout le sommeil de l'autre, ont une expression remarquable. Un poëte fit des vers sur la statue de la Nuit, qui finissaient par ces mots: bien qu'elle dorme elle vit, réveillela si tu ne le crois pas, elle te parlera. Michel-Ange qui cultivait les lettres, sans lesquelles l'imagination en tout genre se flétrit vite, répondit au nom de la Nuit:

Grato m'é il sonno e più l'esser di sasso.
Mentre che il danno e la vergogna dura,
Non veder, non sentir m'é gran ventura.
Però non mi destar, deh parla basso.'
Madame de Staël, 'Le séjour à Florence', Corinne ou Italie (Paris: Gallimard, 1985), pp. 514-515.

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Isa Blagden, da Lilian White, Jeanette Marks

Si raccontavano molte storie sull'origine e la vita passata di Miriam . . . Si diceva, per esempio, che Miriam fosse figlia ed erede di un importante banchiere ebreo, (un'idea, forse suggerita da alcuni tratti marcatamente orientali del suo volto) e che fosse andata via dalla casa paterna  per sfuggire all'unione con un cugino, erede di un altro membro di quella fortunata confraternita, unione decisa affinché quel vasto cumulo di ricchezze rimanesse in famiglia . . . Secondo [un'altra] ipotesi . . .  era figlia di un proprietario terriero del Sud America, il quale le aveva dato un'istruzione approfondita e donato le proprie ricchezze, ma una goccia di sangue africano nelle vene l'aveva afflitta, con un tale senso di vergogna che ella aveva rinunciato ad ogni cosa ed era fuggita dal suo paese . . .

Nathaniel Hawthorne, Il fauno di marmo (trad. it. di Fiorenzo Fantaccini), Giunti, Firenze, 1995.

3 Quando Mary Somerville, grande matematica e astronoma, diede qui sepoltura al marito (1860) ricordò sulla tomba che il padre di lui fu lo 'storico della Regina Anna' che scrisse contro la schiavitù nell'Impero Britannico.

*§  WILLIAM SOMERVILLE/ SCOTLAND/ Somerville/ Guglielmo/ / Inghilterra/ Firenze/ 25 Luglio/ 1860/ Anni 87/ 703/ William Somerville, l'Angleterre (Ledbrough, Roxburghshire, Ecosse), rentier/ DNB, GL23777/1 N° 282 Burial 27/06, Rev O'Neill/ WILLIAM SOMERVILLE/ ELDEST SON OF THE HISTORIAN OF QUEEN ANNE/ BORN AT MINTO ROXBURGHSHIRE/ 22 APRIL 1771/ DIED AT FLORENCE 15 JUNE 1860/ GOD WILL REDEEM MY LIFE FROM/ THE POWER OF THE GRAVE 49 PSALM/ A11N(148)


 

Sia Ginevra sia Firenze furono teocrazie, modellando la loro storia sulla Bibbia. Ha qui trovato sepoltura con altri membri della sua famiglia in esilio lo svizzero Augustin Galiffe. Noto per aver avviato lo studio storico degli archivi, e per aver preservato gli archivi di  Ginevra. Fu amico di Madame de Staël e di Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi.

JACQUES AUGUSTIN GALIFFE/ SVIZZERA/ Galiffe/ Giacomo A./ / Svizzera/ Firenze/ 15 Dicembre/ 1853/ Anni 77/ 523/ Jacques Augustin Galiffe, Genève, Confederation Suisse, Rentier

SOPHIE ANNE MARIE CATHERINE GALIFFE/ SVIZZERA/ Galiffe [Claparede]/ Sofia/ Svizzera/ Firenze/ 14 Novembre/ 1841/ Anni 16/ 228/ Sophie Anne Marie Catherine, born 16th April 1825 god-daughter of Prince Pierre Andreiowitch Viasemsky, died at Florence 14th November 1841.  She showed remarkable dispositions for literature and music.

AMALIE PICTET GALIFFE/ SVIZZERA/ Galiffe nata Pictet/ Amalia/ Carlo/ Svizzera/ Firenze/ 14 Agosto/ 1872/ Anni 82/ 1178/ Amalie Galiffe, fille de Charles Pictet

Lo stesso anno morì Henry Edward Napier, che nel 1836 aveva dato sepoltura nel Cimitero degli Inglesi a Firenze alla moglie Carolina, figlia naturale del duca di Richmond; successivamente pubblicò i sei volumi della Florentine History from the Earliest Authentic Records to the Accession of Ferdinand the Third, Grandduke of Tuscany (1846-1847).

^*§ CAROLINE (BENNETT) NAPIER/ ENGLAND/ Napier/ Carolina/ / Inghilterra/ Firenze/ 5 Settembre/ 1836/ / 141/ GL 23773/4 N° 50: died at Villa Capponi, Rev Knapp; Baptism children GL23773 N° 16 Arthur Lennox b 24/12/33 bp 31/03/34 Rev Hutton, G23773 N° 52 Richard Henry b 11/03/36 bp 28/05/36 Rev Hutchinson, father Henry Edward capt RN mother Caroline/ Maquay Diaries: 6 Sep 1836: ‘Mrs Napier died last night after an illness of 7 hours, leaves 4 children, poor woman.’; 21 September Maquay takes back an old servant who had been with Captain Napier, the latter now leaving as his wife is dead./ DNB entry: 'Napier, Henry Edward 1789-1853, historian, born on 5 March 1789, . . .  married on 17 Nov. 1823 Caroline Bennet, a natural daughter of Charles Lennox, third duke of Richmond; she died at Florence on 5 Sept. 1836, leaving three children'./ Hare, Horner cite Napier's Florentine History/ CAROLINE NAPIER/ WIFE OF/ CAPTAIN/ HENRY EDWARD NAPIER, R.N./ BORN/ 9TH AUGUST 1806/ DIED/ 5TH SEPTEMBER 1836/ IF I HAD THOUGHT THOU COULDST HAVE DIED/ I MIGHT NOT WEEP FOR THEE/ BUT I FORGOT WHEN BY THY SIDE/ THAT THOU COULDST MORTAL BE/ IT NEVER THROUGH MY MIND HAD PAST/ THAT TIME WOULD E'ER BE OER/ AND I ON THEE SHOULD LOOK MY LAST/ AND THOU SHOULDST SMILE NO MORE/ AND STILL UPON THAT FACE I LOOK/ AND THINK TWILL SMILE AGAIN/ AND STILL THE THOUGHT I CANNOT BROOK/ THAT I MUST LOOK IN VAIN/ BUT WHEN I SPEAK THOU DOST NOT SAY/ WHAT THOU NEER LEFTST UNSAID/ AND NOW I FEEL AS WELL I MAY/ SWEET CAROLINE THOU'RT DEAD/ IF THOU WOULDST STAY EEN AS THOU ART/ ALL COLD AND ALL SERENE/ I STILL MIGHT PRESS THY SILENT HEART/ AND WHERE THY SMILES HAVE BEEN/ WHERE EER THY CHILL BLEAK CORSE I HAD/ THOU DIDST STILL SEEM MY OWN/ BUT HERE I LAID THEE IN THY GRAVE/ AND I AM NOW ALONE/ I DO NOT THINK WHERE ER THOU ART/ THOU HAST FORGOTTEN ME/ AND I PERHAPS MAY SOOTHE THIS HEART/ ON THINKING TOO OF THEE/ YET THERE WAS ROUND THEE SUCH A DAWN/ OF LIGHT NEER SEEN BEFORE/ AS FANCY NEVER COULD HAVE DRAWN/ AND NEVER CAN RESTORE/-/ A10T(135)/ See Bennett, for mother's tomb beside hers, also Kellet tombs of three descendants from Captain Robert John Napier Kellett (1797-1853).

Ha qui trovato sepoltura la vedova scozzese Mary Young (1867). Intenso fu il lavoro di ricerca da lei compiuto negli archivi per i due volumi su Aonio Paleario, protestante italiano del secolo XVI. L'iscrizione sepolcrale ricorda il lavoro di ricerca e l'opera.

* MARY (AUCRUM) YOUNG/ SCOTLAND/ Young nata Aucrum/ Vedova Maria/ Giovanni/ Inghilterra/ Firenze/ 27 Settembre/ 1867/ Anni 76/ 988/ +/ Maria veuve Yung, Edimburg, rentier, fille de John Aucrum/ HOLD [Anchor] FAST/ TO THE MEMORY OF/ MARY YOUNG/ DAUGHTER OF THE LATE/ JOHN STROTHER ANCRUM OF ROXBURGH/ AND WIDOW OF THE REV. ROBERT YOUNG DD MINISTER OF THE/ SCOTS CHURCH LONDON WALL/ ENDOWED WITH SUPERIOR AND REFINED INTELLECT/ FIRM CHARACTER AND ARDENT AFFECTIONS/ SHE WAS BY GOD'S GRACE ENABLED TO SPEND HER WHOLE LIFE IN HIS SERVICE/ AND IN SE. . E . .ING EFFORTS FOR THE GOOD OF OTHERS/ HER FAITH WAS SIMPLE AND UNWAVERING/ SUPPORTED BY THIS FAITH AND CHEERED BY THE HOPE OF GLORY/ SHE ENDURED WITH FORTITUDE THE DECAY OF HER EARTHLY/ TABERNACLE AND JOYFULLY WELCOMED THE SUMMONS/ WHICH CALLED HER HENCE/ ON THE 27 DAY OF SEP 1867/ AGED 77/ AMEN. SO LET IT BE [Books and Palms]/
 

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/ QUI RIPOSANO LE SPOGLIE MORTALI/ DI / MARIA YOUNG/ VISSE MOLTI ANNI IN ITALIA/ RACCOLSE NEGLI ARCHIVI NOTIZIE STORICHE/ CON CUI COMPOSE UN LIBRO ASSAI STIMATO/ LA VITA DI AONIO PALEARIO E I SUOI TEMPI/ DIMORO' LONGAMENTE IN PISA DOVE EDIFICO'/ UNA CHIESA EVANGELICA E UNA SCUOLA/ SOCCORSE SEMPRE I POVERI AMO' LO STUDIO E SI/ . . SE PER IL RISORGIMENTO DELLA LIBERTA ITALIANA/ MORIVA IN FIRENZE ALL'ETA DI 77 ANNI/ IL 27 SETTEMBRE 1867/ FRA LE BRACCIA DELLA INCONSOLABILE FIGLIA/ ALLA SUA CARA MEMORIA CONSACRARONO QUESTA PIETRA/ CARLO E ROBINIA MATTEUCCI/ see Giuliana Artom Treves, The Golden Ring, pp. 121-3./ F4I
[See Biblioteca e Bottega Fioretta Mazzei acquisitions for Volume I of her book, Aonio Paleario and His Times, 1860]

Sono qui sepolti il filologo medievalista Adolfo Mussafia (1905) e sua moglie, nativi dell'austro-ungarica Trieste.

§ ADOLFO MUSSAFIA/ TRIESTE?/ [Portrait Medallion]/ ADOLFO MVSSAFIA/ N. A SPALATO, 1834/ M. A FIRENZE IL 7 GIVGNO 1905 / LA MOGLIE INCONSOLATA  D28I
REGINA MUSSAFIA/ AUSTRIA / DELLA VEDOVA REGINA MVSSAFIA MORTA A VIENNA IL XV MARZO MDCCCCXV. QVI PER SVO VOLERE FVRONO DEPOSTE LE CENERI IL SESSEGUENTE XI APRILE/ 2011/ D28I

   Mussafia tomb to left

Riposa qui anche Elena Raffaelovich (1918), moglie ebrea-russa di Domenico Comparetti.

^*°§ ELENA RAFALOVIC COMPARETTI/ RUSSIA/ITALY/[Comparetti/ Elena/ /Italia/ Firenze/ 29 Novembre/ 1918/ / 760 Later Hand]/ [Wife to prof. Domenico Comparetti, ; Talalay: Odessa 1842-1918; femminista, pedagoga, figlia del banchiere Lev Anisimovic Rafalovic e di Elena Jakovlevna Poljakova, moglie del filologo pisano Domenico Comparetti; nel Cimitero algo Allori si trova la tomba della moglie di suo zio Rafalovic Ljubov' Samojlovna/1825-1883, HII11; Bibl.: Storia di Elena, a cura di E. Frontali Montali, Torino, La Rosa, 1980; M.A. Manacorda, 'La breve illusione pedagogica di Elena Comparetti' in L'educazione delle donne: Scuola e modello di vita femminile nell'Italia dell'800, a cura di S. Soldoni, Milano, Angeli, 1989]/ ELENA COMPARETTI/ RAFFALOVICH/ ODESSA 1842/ FIRENZE 1918/ C28L/ °=Valeria Milani Comparetti, Firenze

© Julia Bolton Holloway,


IL BELLO SEPOLCRALE

CARLO SISI


Cette église de Santa Croce contient la plus brillante assemblée de morts qui soit peut-être en Europe. Corinne se sentit profondément émue en marchant entre des deux rangées de tombeaux . . . . La vue de cette église, décorée par di si nobles souvenirs, réveilla l'enthousiasme de Corinne: l'aspect des vivants l'avait découragée, la présence silencieuse des mort ranima, pour un moment du moins, cette émulation de gloire dont elle était jadis saisie; ella marcha d'un pas plus ferme dans l'église, et quelques pensées d'autrefois traversèrent encore son ame.

Madame de Staël, 'Le séjour à Florence', Corinne ou Italie

  Selvaggiano, distante pochi chilometri da Padova, Melchiorre Cesarotti - uomo sedentario e fantasioso, pacifico e sensibile, fondamentalmente lieto ma amante del “piacere delle lacrime”- aveva eletto la sua casa di campagna a ritiro destinato a perpetuare la memoria delle cose più care e di quelle passioni che anche nella loro tristezza riempiono l’anima di soavità. Nella villa alcune sale erano intitolate alla filosofia razionale, alla filosofia morale e alla letteratura; vi erano annessi un museo naturalistico e una ‘grotta del lavoro solitario’, ed anche un piccolo parco, che Cesarotti chiamava il suo ‘poema vegetabile’, con un ‘boschetto funebre’ cosparso di iscrizioni e busti dedicati agli amici defunti, nel quale amava passeggiare e meditare solo o con chi veniva a visitarlo. Questa inclinazione sentimentale, manifestata entro uno scenario precocemente romantico, certo non stupisce se la colleghiamo all’appassionato traduttore di Ossian e, soprattutto, a quei sentimenti che, alla fine del Settecento, venivano alimentati dai nuovi pensieri sulle sepolture e sui loro significati che presero campo dopo le empietà rivoluzionarie.

Sono gli anni in cui Ugo Foscolo concepiva il carme dei 'Sepolcri,' e la chiesa e i chiostri di Santa Croce cominciavano ad offrire al visitatore, nutrito di letteratura preromantica più che di una ancora immatura passione per i primitivi, esempi di 'bello sepolcrale' e la consolazione che soltanto la memoria dei ‘forti’ poteva procurare a intelligenze moderne convinte della funzione benefica delle illusioni.

Alla sublimazione poetica foscoliana corrispondeva infatti nella realtà la struttura di un pantheon esemplato sulle teorie scaturite dal dibattito avviatosi in Francia nell'ultimo decennio del XVIII secolo intorno alle tombe e alle cerimonie funebri, dibattito che aveva inteso ristabilire un ordine morale dopo la tempesta rivoluzionaria. Ne dipese un'idea di Pantheon quale luogo del culto della memoria esteso dall'individuo alla società, con intento di sollecitazioni morali e patriottiche; ma anche la legittimazione del pianto e dell'abuso che rivalutava la semplice stele sepolcrale, sede privilegiata del ricordo e del rimpianto, simbolo consolatore e perenne di virtù domestiche consegnate alla storia.

La difesa degli slanci del cuore, il caloroso consenso all'illusione proveniente dal circolo degli idéologues - celebri e universalmente letti i poemi di Legouvé e Delille sulle sepolture e la malinconia - non potevano che segnalare nel sepolcro il luogo ideale di un incontro, di un'affettuosa e spirituale corrispondenza. L'arte diviene a questo fine un tramite fondamentale e necessario a "embellir le néant", e la tradizione neoclassica francese vi collabora in maniera rasserenante e costruttiva attraverso l'ideale rousseauiano di un rinnovato, perenne e purificante contatto con la natura che si realizzava nella preferenza accordata alla tomba extraurbana e campestre, mentre Canova era chiamato esecutore moderno di monumenti funerari per aver sublimato l'idea della morte col pensiero greco delle sue steli immacolate.

"Les tombeaux sont les vrais monuments du voyageur" scrive Chateaubriand richiamando le immaginazioni del Piattoli intorno alle antiche vie dei romani costeggiate da monumenti e iscrizioni ove "il passeggero nazionale, e straniero apprendeva le glorie della nazione, il cittadino si eccitava ad emularne gli esempli, e si scuoteva coll'utile pensiero di sua fralezza" (1774); o la perorazione di Thiéry rivolta all'utilità delle epigrafi e alla necessità di porre i cimiteri ai margini delle principali arterie stradali come fari di cultura e di civiltà (1787).

Questa estetica pragmatica e morale prevale sul genere 'sombre' teorizzato dall'abbè Cournand, che rifacendosi alle 'epistole' e alle 'meditazioni' sulla solitudine, sulla morte e sui cimiteri di Young, Hervey, Gray e Macpherson, aveva inventato un genere letterario adatto ad esprimere la seduzione dei lati oscuri della vita: un viaggiatore anglofilo in visita a Santa Croce nei primi anni dell'Ottocento si doveva accontentare infatti del brano 'notturno' inserito da Innocenzo Spinazzi nel monumento ad Angelo Tavanti, oppure della civetta annidata sulla panoplia nell'ombra del sepolcro di Francesco Algarotti nel Camposanto di Pisa; mentre a sostegno dello sparuto manipolo di ammiratori dei contemplativi inglesi in giro per la Toscana non saprei citare altro che l'edizione pisana dei 'Canti melanconici' di Bernardo Laviosa rivolti "ad una età, che si è mostrata sì sensibile alla dolce tristezza, che spirano i poemi dell'inglese Youngh".

Il ‘bello ideale’, con le sue implicazioni naturalistiche, si sarebbe manifestato soltanto all’arrivo in Toscana delle opere di Antonio Canova, negli anni in cui la propensione dimostrata dai teorici riformisti alle pratiche funebri dell’antichità – e che si evince anche dal carme foscoliano –avrebbe contribuito a dissipare i vani fantasmi di cui la superstizione, e certa letteratura, avevano corredato il corteggio dei morti, continuando a trarre spunto dal fasto funereo e dagli “effigiati scheltri” della tradizione figurativa barocca. Alla drammatizzazione dei simboli subentra così la grazia e la semplicità che son metafora della poesia vincitrice della morte, spogliata quest’ultima d’ogni significato terribile e ricondotta alla serena meditazione sulla necessità del morire, che è a sua volta scandita dall’elegante mistero dei simboli (la fiaccola spenta, la corona funeraria, la farfalla, il seme del papavero, il serpente ctonio).



Cimitero 'degli Inglesi'

La fiaccola spenta:

Colonel James Hughes, Wales, D21H

  Jean Claude Lagersward, Sweden, E18E

  Sophia Felicatovna Golikova, Russia, A8N

La corona funeraria:

Ivan Leontovich Levitsky, Poland/Russia, A5N

La farfalla e il serpente ctonio:

Jean Claude Lagersward, Sweden, E18E

Il seme del papavero:

  Andrea Casentini, England/Italia, F12E


Tutto questo dice l'iconografia del dialogo sentimentale fra i sepolcri: ora sono amici che s'incontrano all'imbrunire sulla tomba di un caro da poco scomparso; ora è il colloquio mesto degli affetti familiari davanti al 'temple de la douleur'; ora è l'immagine simbolica che allude alla luminosa vittoria di Amore sulla "pallida mors"; ora sono giovani eleganti assorti fra tombe adorne di simboli lieti, ritratti nel “séjour de la paix et de l'innocence" celebrato da Guyot e meta prediletta della sensibilità neoclassica già venata dall'angelica umanità dei marmi di Canova. Veri e propri traslati figurativi, questi ultimi, della grazia che pervade il racconto di una visita fatta da Isabella Teotochi Albrizzi al cimitero degli Eremitani, dove l'urna dell'amica “di rilucente marmo carrarese" e "circondata da mille e mille fiori olezzanti, e con diligenza coltivati" invitava a "pascersi d'una qualche dolce e soave illusione" e a ripetere nei gesti dell'affetto e della pietà lo stesso elevato linguaggio delle figure scolpite da Canova:
 

Dopo alcuni istanti, che l'idea dell'inevitabile destino dei mortali, e il doloroso pensiero del sopravvivere a chi ci è caro, tutta m'aveano compresa, mi sentii da una fredda mano stretto il cuore così, che affrettai il passo ad uscire: ma non pietoso atto parendomi l'andarmene senza l'offerta d'un qualche tributo, oltre a quello, che già rendeale secreto il mio cuore, staccai subitamente dal mio capo una ghirlanda di fresche rose, e a' piedi di quell'urna, di quel cipresso, di sì tristi memorie, divotamente sospirando la posi.

Credo che di questi stessi pensieri fossero nutriti la mente e il cuore dei visitatori che trascorrevano, nella solenne penombra, le gallerie del Camposanto di Pisa o le navate di Santa Croce, elette a rifugio per la meditazione e le immaginazioni sublimi da Madame de Staël, che ne fece lo scenario malinconico delle ultime pagine di Corinne; da Chateaubriand, che sul monumento di Alfieri innalzato dalla contessa d'Albany intesseva il commovente epicedio dell'amore che si prolunga oltre la morte; da Stendal, che impressionato dall"'étonnante réunion" dei grandi sepolti nella chiesa vi provava l'emozione “où se rencontrent les sensations célestes données par les beaux-arts et les sentiments passionnes.

La trasfigurazione poetica del significato del sepolcro non fece tuttavia dimenticare a visitatori più pratici che l'uso invalso di seppellire i morti in fosse comuni o singolarmente dentro le città e soprattutto nelle chiese e nei chiostri, aveva provocato disastrose conseguenze igieniche e quindi l'obbligo di seppellire i cadaveri fuori dalle mura urbane, in luoghi idonei per posizione geografica e climatica. L'origine del cimitero, inteso come luogo distante dalla città e organizzato secondo precise regole architettoniche ed urbanistiche, si configurò dunque come percorso antitetico all'intimità di affetti favorita dai loggiati del chiostro, dove la cadenza paratattica di un incedere attento e pensoso consentiva di incontrare, quasi in pagine di racconto, il cittadino benemerito, la sposa amata e perduta, il figlio conteso dall'invidia del cielo e la soave cantatrice genuflessa per invocare un fiore alla sua tomba. I presupposti illuministici dei nuovi progetti sostituivano infatti all'aggregazione patetica di succinte biografie raccolte in una sorta di romanzo sepolcrale, la simmetria chiarificatrice dettata da necessità funzionali e politiche, le stesse che convincono Carlotta, nelle 'Affinità elettive', a riorganizzare il piccolo cimitero del villaggio col pensiero che il puro sentimento d'una generale uguaglianza finale fosse foriero di pace più che non l'ostinata e tenace prosecuzione delle individualità, affezioni e relazioni di vita.

Fu mantenuto tuttavia un 'privilegio di sepoltura urbana', per cui si continuò ad inumare in luoghi illustri come la chiesa e i chiostri di Santa Croce, ove una "trista, ma decorosa eleganza" favoriva la prolungata e confortevole permanenza dei cultori della memoria, di quei viaggiatori che, sedotti dalla musa sepolcrale, dividevano la propria malinconia tra le sepolture dei chiostri e i sentieri del cimitero campestre “Io sento spesso uno stimolo potente che mi porta ad aggirarmi fra le tombe - scriveva Izunnia in occasione di una sua visita al chiostro di Santa Croce - In quel silenzioso albergo della morte, fra quelle dolenti iscrizioni, fra quelle imagini funebri il mio spirito stanco sembra acquistar nuova lena, e sente un conforto amaro simile a quello provato alla notizia che un infelice ha cessato di soffrire. La vista di un cimitero campestre, quand'io vi passo dinanzi, ha una forza che m'arresta invincibilmente: bisogna che mi trattenga. Avrò mille volte riletti certi epitaffi, ma son ben pochi: quelle parole scolpite sul marmo mi sembrano il linguaggio dell'eternità [...]. Il mio pensiero dopo essersi slanciato oltre il confine del nostro mondo a un tratto ripiomba in una specie di vacuo, sento una calma stanca, e col cuore gonfio da mille affetti diversi lascio l'asilo de' trapassati e corro a rinchiudermi nel silenzio del mio tugurio. La stagione in che la maggior parte degli uomini è più lieta, non so perché, accresce l'abituale mia malinconia, e mentre gli altri corrono a godere dello spettacolo della campagna in tutta la pompa della vegetazione, io amo allora più spesso meditare pei sepolcreti.

La prevalenza di emozioni relative, maturate in un contesto culturale e sociale, quello appunto della Restaurazione, che integrava armoniosamente gli aspetti più diversi se non contrastanti dell'esistere e del morire, determinò di conseguenza un allentamento dell'organicità formale che aveva nutrito il ‘sublime' neoclassico, per cui il monumento e la lapide anteponevano ora al messaggio esemplare un'accostante dolcezza densa di contenuti letterari. Il Purismo era lo stile che più si confaceva a queste mutate esigenze espressive e particolarmente al genere sepolcrale, predisposto com'era ad una narrazione trascorrente e patetica che ammetteva, finalmente, lo stormire della natura e persino che spiritualità e morale deponessero l'astrazione di concetti per assumere le naturali sembianze di confidenti allegorie.

Da qui la capacità straordinaria dell'uomo romantico di allestire percorsi nei quali l'esposizione misurata di vicende dolorose era in grado di integrare anche il mistero della morte, da qui lo spunto per suggestioni letterarie e teatrali (si pensi quanti esiti drammatici avvenivano in presenza dell' 'avel'); da qui il tracciato di suggestivi itinerari della memoria, come quelli ancor oggi recuperabili nel Giardino di Niccolò Puccini a Scornio, o nel vastissimo giardino urbano dei Torrigiani o infine nella celebratissima villa suburbana di Giulio Bianchi a Siena; da qui, infine, la licenza sentimentale di commemorare con una lapide persino il ricordo del cane fedele. “Più che gli abbellimenti dell'arte - scrive nel 1839 Melchior Missirini - per la varietà e il patetico de' camposanti, valgono quelli della semplice natura. Questi temperano meno il rigore del luogo, e nei petti destano più gentili e utili inspirazioni [...]. Egli pare che la natura stessa ci insegni di menomare la mestizia indotta dai corpi morti colla floridezza e freschezza delle piante viventi. Direbbesi sperar noi che quella efflorescenza dovesse le persone da noi amate far germogliare a nuova vita [...]. Si piantino adunque presso i sepolcri degli amici questi alberi, pieni di espressioni malinconiche: le urne e le statue sono divorate dal tempo; ma il tempo riproduce gli allievi della natura”.

Il cimitero campestre o il loggiato del chiostro, con la serena scansione degli spazi luminosi ed esposti alla variabilità delle stagioni, e le lapidi e i monumenti allineati a dimostrare la ritornante ciclicità di nascita, maturità e decadenza, divenivano a questo punto meta insufficiente ed illusoria per un'età che intendeva sostituire alle diverse e possibili analogie della natura le avventurose manifestazioni del vero. La messa a fuoco dei problemi sociali operata dalle tendenze democratiche sviluppatesi intorno al 1840 aveva infranto il velo delle convenzioni alimentate dalla 'bontà' del paternalismo granducale, per cui la certezza del perenne ricordo assicurato dalla tomba e le risoluzioni consolatorie offerte dalla letteratura epigrafica erano considerate, a sfondo di drammi singoli o collettivi valutati nel contesto della storia, abitudini superstiziose e ingannatrici, spesso mosse da superficiale vanità. Scrive Francesco Moisè nel 1845, segnando il transito di un’epoca: "Tante iscrizioni d'ogni fattura e d'ogni lingua, per un antico peccato modeste e vere poche, barbare, vanitose, bugiarde moltissime, ci sono sembrate significare spesso un'antitesi mostruosa tra la storia e la vita dei tumulati; ci hanno rivelato la vanità dei congiunti e di eredi cui parve pur la bella cosa il loro nome scolpito sopra un pezzo di marmo”.

La caduta di tensione sentimentale nel rapporto tra l'uomo ottocentesco e il mondo dei morti è posta in evidenza, proprio alla metà del secolo, dalla politica amministrativa che viene attuata nei confronti del problema delle sepolture e che determina anche in Toscana la scelta definitiva dei cimiteri periferici, dipendenti per principi costitutivi da quelli progettati agli inizi dell'ottocento ma uniformati nella sostanza da una fredda sistematicità che preludeva, pur con episodi localmente suggestivi, ai tetri depositi dei cimiteri odierni.

La memoria del passato sarebbe stata affidata da qui in avanti allo zelo dei comitati o alle necessità rappresentative della committenza borghese, non più a quella coinvolgente 'corrispondenza' che aveva permesso di considerare la morte, con i suoi simboli delicati e commoventi, una seconda vita e di trasformare la visita al cimitero in consolante indugio sulle soglie dell'eternità.
 

© Carlo Sisi, 2004

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^* ANDREA CASENTINI/ ENGLAND/ITALIA/ Casentini/ Andrea/ Mariano/ Italia/ Firenze/ 2 Febbraio/ 1870/ Anni 17/ 1079/ Andrea Casentini, l'Italia, fils de Mariano Casentini/ AL DILIGENTE E STUDIOSO GIOVANE/ ANDREA DI MARIANO CASENTINI/ CARO A TUTTI PER DISTINTE VIRTU'/ CHE NATO A LONDRA/ IL 14 MARZO 1853/ ERA TOLTO ANZI TEMPI ALLA VITA/ IN QUESTA CITTA'/ IL 2 FEBBRAJO 1870/ DESOLATI PADRE E FRATELLO/ QUESTA COMMEMORATIVA PIETRA/ ESPRESSIONE DI AFFETTO E DOLORE/ PIETOSAMENTE PONEVANO/ Freeman, 225/ F12E/ Sculptor's signature

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SOPHIA FELICATOVNA GOLIKOVA/ RUSSIA/ Golikoff/ Sofia/ Phelitre/ Russia/ Firenze/ 12 Aprile/ 1863/ Anni 22/ 827/ Sophie Golikof, Russia, rentière. fille de Pheliter Golikoff, et de Pauline Golikoff/ [Young woman carried to heaven by winged, diademed angel] Golikova Sofija Felicatovna/ Talalay: nata 8.10.1841, Epitaffo: 'Blazeni cistii serdcem ibo oni Boga uzrjat'/Beati coloro che hanno il cuore immacolato perchè di essi è il Regno di Dio], N° 827, RC/ A8N(108) A.Tomba fecit 1864

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* COLONEL JAMES HUGHES/ WALES/ Hughes/ Colonn: Giacomo/ / Inghilterra/ Poggibonsi/ 25 Novembre/ 1845/[63] / 325/ [On Casket] SACRED TO THE MEMORY OF/ COLONEL JAMES HUGHES CB/ THIRD SON OF THE REVEREND EDWARD HUGHES KINMEL PARK IN THE COUNTY OF DENBIGH AND OF LLISDULAS IN THE COUNTY/ OF ANGLESEA HE DIED ON THE 29TH DECEMBER 1845/ THIS MEMORIAL IN TOKEN OF HIS GREAT AFFECTION WAS ERECTED/ BY HIS ONLY SURVIVING BROTHER WILLIAM LEWIS LORD DINORBEN/ [Between Cypress and Oak Leaves and Reversed Torch and Laurel Leaves and Sword] COLONEL HUGHES ENTERED THE ARMY AT AN EARLY AGE AS C. . . THIRD LANCERS/ HAVING BEEN PROMOTED INTO THE . . . IN PORTUGAL AND SPAIN UNDER THE COMMAND OF LT GEN MOORE HE WAS WITH/ THE ADVANCED GUARD AT THE ESCURIAL AND PRESENT AT THE DIFFERENT AFFAIRS/ WHICH WERE HAD DURING THE RETREAT AND AT THE MEMORABLE ACTION OF/ CORUNNA WHERE THE BRAVE SIR JOHN MOORE FELL EARLY IN 1813. THE COLONEL/ JOINED THE ARMY IN SPAIN COMMANDED BY THE DUKE OF WELLINGTON HE/ WAS PRESENT AT THE BATTLE OF MORALES AND HAD THE GOOD FORTUNE/ TO COMMAND THE 1ST AT THOSE OF VICTORIA, NIVELLE, NIVE AND ORTHES/ ON THE 28TH OF MARCH 1814 AT THE HEAD OF ONE SQUADRON OF THIS/ DISTINGUISHED REGIMENT HE CHARGED AND DROVE A FRENCH REGIMENT/ OF DRAGOONS UNDER THE GUNS OF ST CYPRIAN AND ON THE 18TH APRIL/ FOLLOWING HE ATTACKED AND CARRIED THE BRIDGE OF CROIX D'ORADE/ DEFENDED BY VIAL'S DRAGOON WHILE THE OPPOSITE BANKS WERE/ LINED WITH DISMOUNTED CARBINIERS. THIS SUCCESS SECURED THE/ COMMUNICATION OF THE ALLIED COLUMNS AND OPENED THE ROAD TO TOLOUSE/ THE COLONEL WAS SEVERELY WOUNDED IN AN AFFAIR AT ELLITE/ FOR HIS SEVERAL SERVICES HE WAS REWARDED WITH DISTINGUISHING CROSSES/ [GL 23774 N° 88: died 29-11, date of burial 04-12, aged 63, Rev Robbins]D21H

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*§° JEAN CLAUDE LAGERSVARD/ SVEZIA/ Lagersward/ Giov: Claudio/ / Svezia/ Firenze/ 12 Dicembre/ 1836/ Anni 80/ 148/ / [Sculpture of husband leaving childless wife, angel crowning him with stars with one hand, holding reversed torch with other, winged hourglass on one side, ourobouros around bee on the other] ICI.REPOSE.JEAN.CLAUDE.LAGERSVARD/ DERNIER.REJETON.DE.SA.FAMILLE/ DE S.M. LE  ROI.DE. SUEDE.ET.DE.NORVEGE/ PRES. DES. COURS. D'ITALIE/ ET CONSEILLER DE SA CHANCELLERIE/ NE LA IX AOUT MDCCLVI/ MORT LE XII.DECEMBRE.MDCCCXXVI/SUEDOIS DE COEUR ET D'AME/ HABITANT L'ITALIE DEPUI 11 JUILLIET MDCCLXXXIX/ COMME SECRETAIRE DE LEGATION/ CHARGE D'AFFAIRES. ET. MINISTRE/ SOUS QUATRE DIFFERENTS REGNES EN SUEDE/ ET PENDANT LES REVOLUTIONS DE L'EUROPE/ G.N Bystrom.svedese.inv.e.scolpt. E18E/ For information on G.N. Bystrom, contact Prof. Annette Landen, Department of Art History, Lund University, Sweden

SOPHIA HUGEL LAGERSWARD/ SVEZIA/ Lagersward nata Hugel/ Sofia/ / Svezia/ Firenze/ 11 Dicembre/ 1853/ Anni 83/ 521/ Sophie Lagersward, née Hugel, Suede, rentière, Veuve de Jean Claude Lagersward, en son vivant, Ministré a S.M. le Roi de Suède près la cour de Toscana/ E18E/ see Hugel
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IVAN LEONTEVIC LEVICKIJ (LEWITZKY)/ POLAND/RUSSIA/ Leontieff Lewitzky/ Giovanni/ / Russia/ Firenze/ 5 Novembre/ 1864/ Anni 10/ 888/ Levickij Ivan Leont'evic/ Talalay: Varsavia, 31.1.1854 -Firenze 5.11.1864; 'figlio del generale luogotenente Leontij Petrovic Levickij e Sofia nata Genrius', MFK; N° 888, RC; colonna spezzata con un tralcio, Epitaffio: paz dvora/ Ego Imperatorskogo Velicestva Gosudarja Imperatora Vserossijskogo/ Aleksandra II Ty dal/ Ty vzjal/ Gospodi da budet/ Volja Tvoja Svjataja/ Do svidanija do skorogo svidanija/ ditja moe/ paggio di Sua Maesta Imperatore di tutte le Russie Alessandro II. Tu hai dato e Tu hai tolto, Signore, sia fatta la tua santa volonta. A riverderci presto, bambino mio/ A5N(61, Rebesov [sic])


 
 


LIVING WITH DEATH: INSCRIPTIONS, ORATION AND MONUMENTS

ANNE O'BRIEN


Who telleth a tale of unspeaking death?
Who lifteth the veil of what is to come?
Who painteth the shadows that are beneath?
The wide-winding caves of the peopled tomb?
Or uniteth the hopes of what shall be
With the dears and the love for that which we see?

Percy Bysshe Shelley, ‘On Death’ (1816)


he general study of tombs can provide a useful insight into society and the manner in which it relates to its past. Indeed, it has been said that remembrance and commemoration of the dead is in every age a remarkable contemporary testimony.1 In nineteenth-century Tuscany, death emerged from the dark recesses of a cemetery to take a prominent place in the contemporary landscape; from the church of Santa Croce, to monuments around the Florence, and a variety of burial sites, the dead took their place among the contemporary landscape. Localising the prevalent European interest in death, Florence generated its own cult of the dead with the city’s specific needs in mind. To examine this phenomenon, I will look at three elements, which formed society’s reaction to the dead: inscriptions, funeral orations and monuments. These three aspects, the written, the aural and the visual, show an interest in communication between the living and the dead. They emphasise attempts at honouring the deceased, remembering the past and teaching for the future.

Inscriptions

[…] sebbene morti,
son degni di vivere
nei nostri cuori e nelle nostre menti.

Ferdinando Malvica, Iscrizioni italiane, (1830)

Inscriptions may be termed the language of eternity; they are words written on stones in the hope of defying death. Short and potent, they confront the living with powerful messages from the grave. In early nineteenth-century Italy, there were two important developments in the writing of inscriptions: firstly, there was a huge increase in the number of inscriptions, and secondly, the common language used for inscriptions changed from Latin to Italian. Carloluigi Morichini tells us of the change:
In tanta perfezione la lingua italiana era pur tenuta idonea all’epigrafia. L’età nostra avrà gloria fra le generazioni future di averla emancipata da quest’ultimo pregiudizio, che, a ben considerare, era forse il più contrario a ragione. […] Ma, la Dio mercè, anche questo pregiudizio è vinto, e in ogni parte d'Italia s'incidono, come conviene, epigrafi italiche.2
Morichini speaks of emancipation and it is clear that contemporaries felt that the change from Latin to Italian was both dramatic and significant.3 One of the principal reasons for the change was that most other nations wrote their epigraphs in their native language. By writing in Italian, epigraphists hoped to continue this tradition of great societies writing in their own languages and leaving lasting memorials of their nations. A second strong argument in favour of writing inscriptions in Italian was that writers wished to communicate to a wide audience and to make their message as comprehensible as possible. Latin epigraphs had been aimed at the studious and the learned, thus excluding large portions of the population; as Pietro Contrucci said:
La volgar gente guardando nei templi, nei monumenti e nei sepolcri restava straniera alle idee significate per le iscrizioni ond’erano fregiati a pompa, anzi che a pubblica utilità.4
By writing in Italian, epigraphists could broaden the parameters of inscriptions and appeal to those excluded by the Latin form; in the Antologia it was written:
Non è forse a credere che il giovine, la donna, la fanciulla, il garzonetto si sentiranno mossi ad imitazione, leggendo nelle lapidi come le utili e modeste virtù sono in onore fra gli uomini, e rendono caro il nome di chi le praticò?
It was felt that epigraphs in Italian connected with the wider populace and also came close to touching the raw human emotion associated with death and grief. The Italian language was deemed to better express emotions and to be closer to the people.6

 The desire to appeal to a wide audience was an indication of the didactic function envisioned for inscriptions in nineteenth-century Italy.7 By highlighting the merits of the dead, the living would learn which aspects of behaviour were praiseworthy. Vincenzo Emiliani found it absurd that a citizen could be excluded from reading inscriptions as these were key to raising civic standards.

Qual più forte eccitamento alla posterità per farla sollevare dall’abbiezione e dall’avvilimento, e porla e rinfrancarla nel sentiero della vera gloria, di quel che sia la rimembranza delle virtù degli estinti? Qual voce è più possente di questa rampognare i neghittosi, e accender talvolta ne’ petti una fiamma divina che ne conduce a magnanime imprese?8
He says that there is nothing more effective in the teaching of morals than an inscription placed on a tombstone. For Emiliani, as for many others, the writing of inscriptions was inseparable from a didactic mission. This mission which aimed to instil public virtue led to a concerted effort to make inscriptions available to the general public both by increasing their circulation and by writing them in a language that would be comprehensible to all. The enlarging of the audience was a central theme for writers of epigraphs but this was also connected with an enlargement of the subject matter of inscriptions. Nineteenth-century Italian epigraphs, in contrast to their Latin predecessors, commemorated the humble and honest citizen. The people remembered were not just the ‘grandi’ or the ‘illustri’, rather, they were people who demonstrated virtue in their lives. One still had to earn the right to be remembered but now, one’s achievements did not have to be on a national scale, they could also be virtues expressed within the confines of the family.

Epigraphs, transformed into more accessible literary productions, thus experienced a boom in the nineteenth century. The proliferated in churches and in cemeteries and were in demand from wide sections of the population. As the popularity of the new form spread, prominent authors began to produce a notable amount of inscriptions. The fact that they were often paid for their endeavours increased the willingness of writers to compose epigraphs. The leading epigraphists in these years were Pietro Giordani and Luigi Muzzi, a native of Prato and a member of the Accademia della Crusca.

It appears that Italian epigraphy enjoyed more popularity in Tuscany than other regions in the early years of the nineteenth century. Many of the prolific inscription writers such as Muzzi, Giordani and Missirini were either from Tuscany or resided there and Florentine buildings were replete with examples of Italian inscriptions. A visitor to Florence from Milan in 1835 commented:

Lungo i portici di questo chiostro [di Santa Croce] sono collocate molte centinaja di iscrizioni fatte porre dai più cospicui cittadini di Firenze, […] Ivi notai che il maggior numero di esse erano scritte in idioma italiano, con uno stile semplice e schietto: la qual cosa mi piacque assaissimo, pensando alle difficoltà che ancora sorgono altrove per accogliere nelle iscrizioni quella lingua che ormai parlasi e scrivesi in questo paese da quasi mille anni.9


 

Many collections of epigraphs were published at this time: Luigi Muzzi published 300 inscriptions in 1827, Pietro Giordani published over 200 in 1834 and Giuseppe Manuzzi published 750 epigraphs in 1849. There is also evidence of rivalry between authors; Giodani said in a letter:
Ma che sono mai quaranta, o poco più, iscrizioni che io sinora ho fatte, rispetto alle più di trecento del Muzzi? Le conosci tu? E nelle gazette di Roma egli già fece dirsi (o si disse) inventore e autore di questo genere, e che Perticari i io l'abbiam seguitato.10
Along with these publications, all of the cultural journals carried articles on inscriptions, from the Antologia to the Conciliatore and the Giornale Arcadico.

Although today epigraphy might seem a marginal and quirky cultural production, in nineteenth-century Italy, it was considered a serious literary form. Those promoting Italian epigraphs argued that the vulgar tongue was not complete until it also had its own epigraphic tradition. Analysts such as Francesco Orioli examined in detail the grammatical structures of epigraphs much as one might analyse a poem or novel. Luigi Muzzi even developed plans to open an ‘Accademia Epigrafica’ in Bologna thus showing the depth of interest in epigraphs and the belief in their centrality to the literary canon. Indeed, in 1828, Morichini, referred to inscriptions as 'questo nascente genere di letterature' and described their emergence as a 'novello fiore della letteratura italiana', the new flower of Italian literature.11

The culture which inspired Italian inscriptions in the nineteenth century was very much in concord with the ideas voiced by Foscolo in Dei Sepolcri which emphasised the human and natural instinct to remember. Inscriptions were felt to be inspired by this love and they offered the possibility of keeping the dead alive both in the mind and in the heart. Writers continually mention the loving bond between those who have died and those who are attempting to perpetuate their memory.12  Foscolo’s writing is fundamental to understanding the funerary writing of this period as his ideas on death and remembrance return repeatedly and many of the collections of epigraphs are prefaced by a quotation from his work.13

It has been said that ritual remembrance is a form of intergenerational storytelling;14 it is my opinion that inscriptions were an attempt to promote this form of remembrance. The dialogue between the living and the dead could take place in this curious literary form comprising of words carved on stone. Certainly inscriptions were an attempt to defy time and bribe immortality: there are constant references to ‘memorie eterne’, ‘memoria perenne’ and there can be no doubt that the writers of inscriptions were trying to achieve lasting memory. Italians understood the difficulty of preserving memory, but they were determined to defy this reality by all means possible.As Gaetano Sorgato wrote:

Onorare i benemeriti defunti col perpetuarne la ricordanza, è un bisogno del cuore, un dovere di religione, di amore, di gratitudine.15
These many motivating factors meant that Italians continued to write inscriptions even when human nature might lead one to bow to the inevitablity of erosion. Like Foscolo, who admitted that human efforts were useless in the face of the destruction of time, people concentrated on the human love which could be kept alive through personal memories. With the developments in inscriptions, by the late nineteenth century, these preserved memories were more widespread, more comprehensible and more relevant to Italians.

Eulogies
Inscriptions and funeral orations have much in common and indeed, the lines between the oral and the written were often blurred in the two forms. Epigraphs, which were intended to be inscribed, were often read during the funeral ceremony; and orations, which were supposed to be spoken, were often published. Eulogies were primarily an oral form, however, and they introduced the element of ritual performance to the funeral ceremony. The words read at a graveside or during a funeral ceremony in a church were part of the  essential ritual of the promotion of memory. The lament for the dead, the praise for his or her achievements and the desire for emulation and edification became commonplace graveside sentiments in this century which witnessed the rising popularity of funeral orations.16

Like inscriptions, orations were intended to praise virtue and to nurture the memory of the deceased and to fight oblivion. They were also an attempt to fight oblivion; in the preface to a collection of eulogies, it was said:

Sarebbe per verità troppo brutta macchia di più vituperevole ingratitudine il lasciar che indegna oblivione cuoprisse la memoria di cosiffatti Benemeriti; e divenissero preda del tempo, che tutte mondane cose distrugge, Quelli che ascesero felici al Tempio della immortalità.17
By honouring virtue and promoting positive memories, eulogies followed the same course as inscriptions in their civilizing project.18 In this light, many of the collections of eulogies were dedicated to the young people of Italy. Positive examples were placed in their view in the hope that they would learn from the illustrious and imitate these worthy dead.

There were many nineteenth-century publications such as Gaetano Cattaneo’s Vite e ritratti di illustri italiani (1812), Napione Galeani’s Vita ed elogi d’illustri italiani (1818), Bartolommeo Gamba’s Elogi di Italiani Illustri (1829), Melchior Missirini’s Degli Illustri Italiani (1838) and many others. All of these books promoted the cult of the hero, the process of remembrance and the honouring of the great. Although a large proportion of the compositions were written on the occasion of the death of an illustrious figure, there were also many eulogies which dealt with long-dead figures. The novelty in the collections rests, however, with the amount of orations written for the purpose of commemoration, inspiration and remembrance. There was an unprecedented effort at remembering figures of the past, both those long deceased and those recently buried.

Many writers of inscriptions also composed orations; Pietro Giordani, for example, famous for his epigraphs, was also in much demand for eulogies. One of the principal composers of funeral orations in this era was the Tuscan Francesco Domenico Guerrazzi, who was prominent in the movement to promote eulogies and to use them constructively in a didactic function. Aside from writing many orations, he also published an important essay entitled, ‘Del modo di onorare gli illustri defunti’ which opens with an interesting observation:

L’oblio – la seconda morte – la morte dell’anima, che non può vincersi con monumenti marmorei, né con gli obelischi, né con le stesse piramidi […] con breve foglio molto meglio si può.19

Oblivion – second death – the death of the soul, cannot be vanquished with marble monuments, or with obelisks, or with pyramids. […] much more can be achieved with a short sheet. Francesco Domenico Guerrazzi
 

As a prolific writer, Guerrazzi believed in the power of the word over the presence of the stone. Accompanied to the grave by laudatory words, the dead could gain more permanence if these words were published. Guerrazzi put his ideas into practice and published many orations on leading figures in Italian society. The author felt strongly that orations were an act of gratitude towards the dead, an element of comfort towards friends and family and a guide and example for others. Interestingly, when writing a eulogy for Francesco Salvi, he encountered creative difficulty and so went to look at the body of the deceased. This contact with the physicality of death inspired his words and released 'una passione al cuore tanto profonda, che la mente ne rimase percossa prima, e infiammata', an emotion in the heart so profound that his mind was firstly moved and then inspired.20 This attitude is indicative of a generation which embraced death, which preferred to face it in stark reality and thereby draw inspiration. Guerrazzi did not shy from the sight of the deceased, instead he used it as the starting point for his eulogy.21

Eulogies were therefore a popular form of nineteenth-century remembrance which focused on the illustrious in order to promote civic virtues. They did not undergo the radical change experienced by inscriptions but they still experienced widespread popularity and contributed significantly to the promotion of exemplary citizens and the cult of hero worship. Orations differed from inscriptions as they gave more possibility for shared social interaction. Listening to eulogies formed part of the communal participation in mourning the dead. It emphasised the importance of the dead within the overall framework of society and the continuing presence of the deceased in the life of the living.

Monuments
If inscriptions supplied written stimulus and orations aural, then monuments were the visual stimulus in the remembrance of the dead. All three elements worked together as epigraphs were inscribed on monuments and orations were read at the graveside. The same motivation which led to an increase in inscriptions and orations prompted an expansion in monumental culture and the widespread erection of funerary monuments. Debates were aired on the form and function of monuments and those involved in commemoration were anxious to prove the worthiness and suitability of the person honoured. The negotiation involved in the erection of monuments demonstrates the levels of debate in the process and the interest of the nineteenth century in suitably honouring the dead.22

The successful passage from death to remembrance was not, however, guaranteed for all. The living are the custodians of memory and their reaction to monuments decides their success or failure. In order to promote memory, monuments needed to be placed in locations which would emphasise their importance; they also needed to trigger a reaction amongst viewers and contain some emotional charge. Many failed. The object, the site and the ritual surrounding the monument had to interact meaningfully in order to promote memory. If the site lacked emotional impact then it would fail in its function of conserving memory.

In the nineteenth century, there was a desire to put emotion back into monuments, to create those sites laden with significance as imagined by Foscolo. Pietro Giordani asked, 'Or dicasi quale utilità quale animo e però quale degna bellezza si vede in tanti moderni monumenti, dai quali niuno affetto si spicca, niun pensiero deriva?'23 Monuments needed to be emotive and connect with the audience in a meaningful manner.23  Sculptors developed strategies which would involve people in monuments. To take but one example, figures on funerary monuments often pointed towards the representation of the deceased, drawing attention to the person honoured in the monument. This can be clearly seen in Canova’s monument to Alfieri in Santa Croce where the figure of Italy encourages a contemplation of the deceased writer.24 In Foscolo's era, it was felt that monuments needed to be more communicative and, praising the poet's treatment of sepulchres, Giuseppe Greatti said, 'Il quadro silenzioso de' mausolei fiorentini avea bisogno di essere animato.25 Greatti voices the feeling that monuments needed to speak to their surroundings, that they should interact with the community.26

The power of a site was also increased by the fact that it offered a place of physical reference. One cannot underestimate the emotional power of the site of the remains of the dead and it was in this era that people started to frequent cemeteries on a regular basis and to leave flowers on the tombs of the deceased. The appearance of the crying figure at the tomb, exemplified by Canova’s sculpture for Alfieri’s tomb was, in fact, a novelty and reflected the new sentimental interest in going to mourn at the tombside. The resting place of the dead was individualised with crosses and with monuments, and it became a point of focus for grief. The physical site of burial, emphasised by monuments, was thus a special location where one could tap into the emotion and the power of death.

The impetus for monuments in this era can be seen in the public interest in high profile memorials such as that of Dante in Santa Croce, Tasso in Rome and Canova in Venice. A manifesto published to support a monument to Dante in Florence, mentions the momentum behind commemoration in these years; it spoke of:

[. . .] lo impegno, che ora si ha grandissimo, a eccitamento di virtù nei viventi, di tributare con sepolcri e tumuli onoraj omaggio ai meriti dei quegli illustri uomini che hanno vivuto con noi
[. . .]27
All of these projects to erect monuments received widespread discussion in newspapers and journals, and campaigns were launched to raise the necessary funds for the completion of the ventures. As in eulogies, it mattered little whether the object of the monument was recently deceased or whether the person was a figure from history. Rather, the emphasis was always on the commemoration of greatness and the honouring of achievement.28

Like inscriptions, which were written in Italian in order to make a greater impression on a wider audience, monuments were to become a part of people’s lives. Using either the emotional power of the graveyard or the human figure of a statue, they harnessed memories of the past to communicate the importance of the dead in the lives of the preent. Speaking on the importance of monumental commemoration, Pietro Giordani said that funerary sculptures should honour the special qualities and virtues of the deceased, communicate moral concepts and teach the populace. He continued:

Debbono le nostre are parlare alla moltitudine per gli occhi; e questo parlare debb'essere aperto e facile: di che, senza più lungo ragionamento, vengono escluse le allegorie; che sono quasi sempre enigmi.29
As in inscriptions, Giordani promotes simplicity as it is by this means that more efficent communication will be achieved and a larger audience obtained. There were debates on the size, shape, form, function and place of monuments in these years and it was agreed that the circle of interaction was to be enlarged and a wider representation of society included in the process of remembrance. Monuments could fill the gap if society had failed to adequately remember a valiant person; if there was a dearth of valour in society, they could provide examples to follow.30

There were a variety of publications which welcomed and encouraged the interest in funerary monuments, and exemplary of these was the volume published in 1819 entitled, Monumenti sepolcrali della Toscana.31 Notably, the list of people who subscribed to the publication contains a wide range of members of Tuscan society, from poets to politicians and from foreigners to local clergy. The interest in tombs can thus be seen to be not simply a quirky, marginal fascination, but rather something which appealed to large sections of educated society in the nineteenth century. The book on Tuscan sepulchral monuments was envisioned by its creators as a complementary feature to the tombs. Similarly, poets who wrote on tombs saw their work as a uniting force between the art of words, and the art of sculpture and remembrance. Angelo Mocchetti in his long poem 'Dei monumenti' certainly saw his poetry in his light as his composiiton used monuments as the starting point for thoughts on remembrance, greatness and achievement.32

As with all sepulchral sentiment in these years, the interest in funerary monuments drew inspiration from Foscolo and in particular from the lines in Dei Sepolcri, ‘A egregie cose il forte animo accendono/ L’urne de’forti.’ The poet’s words were often quoted in collections of funerary monuments and the idea of tombs as sources of inspiration was constantly reiterated. In his introduction to a book on Roman tombs, Oreste Raggi said:

E' bello ed universale costume negli uomini onorare le cenere dei virtuosi trapassati, ricuoprendole di alcum monumento. Il quale ricordi ai posteri le virtù loro e metta negli animi, segnamente ai giovani, forte desiderio di volerle imitare.30
At times, the fact of remembering became more important than the person remembered. Commemoration was seen to bring glory upon the present generation for their efforts at remembrance. A wonderful monument to Dante would not just increase the glory of the poet, but would pay tribute to the people who thus honoured him. Mocchetti, realising this broad function of monuments said in the introduction to his poem, Dei Monumenti:
Non intendono però i miei carmi a confortare soltanto le urne de’ Trapassati: acchiudendo io nel significato del vocabolo Monumenti quanto si eseguisce per tramandare le belle rimembranze ai nipoti, ho indiritto alcuni versi di biasimo a chi lascia le onorande cose in non vale, di lode a coloro che ad erigere utili Monumenti l’animo han volto e il poter.

My poetry is not intended merely to comfort the graves of the Deceased. I take the word monument to mean all the good memories that one can transmit to the younger generations and so I have addressed some words of rebuke to those who do not care for honourable things and praise for those who have the will and the power to erect useful Monuments. Angelo Mocchetti

The erection of a tomb was often a difficult enterprise as the intended message did not always hit the mark. There were also some ‘unworthy’ people who could afford magnificent monuments which resulted in admiration for the artist rather then the deceased; and sometimes, the simplest memorial was the most effective. Tasso's apparent neglect and his 'umile sasso' was the subject of much admiration in these years. In some cases, the name of a great person was considered to be sufficient adornment on a tombstone. Monuments and tombs were therefore seen as difficult objects which could assume unintended meanings. They could sometimes be perfect in their simplicity, and at other times, the simplicity showed a lack of respect for the dead. People thus asked themselves whether greatness should be honoured with grandeur or whether a name should assert itself over all other human memorials. These questions were posed in the nineteenth century and there was no resolution to the issue. What is certain, however, was the desire to commemorate in this era and the feeling that, though dead, a person’s memory could survive this finality.
 

Conclusion
While people in nineteenth century Italy were mourning the dead, they were also simultaneously defining the dead. They were defining the role that the dead would play in their society. They localised death and made it a meaningful contribution in their own lives. Italy, a country steeped in Latin heritage, where orations and inscriptions were valued, opted for a new form of remembrance which would use the Italian language, would emphasise Italian heroes and would create new monuments for the landscape. Rituals, tombs, artistic and physical settings, inscriptions and orations orchestrated the remembrance of death. They manipulated time and provoked memory: if orations, inscriptions and monuments were successful, then, past, present and future could unite as one. A dialogue with death was maintained through these efforts.

The messages contained in the funerary apparatus of the nineteenth century were designed to appeal to as many people as possible. This can be seen in its starkest form in the change in inscriptions from Latin to Italian, but is also evident in the increase in orations and the wider distribution of monuments. Throughout the nineteenth century there were prizes and competitions for designs of tombs and cemeteries, and the death mask and deathbed portrait became popular artistic endeavours. Journals carried discussions on the suitability of various forms of burial and burial sites and there were wide-ranging debates on issues of mortality, disposal of corpses, appropriate ceremony and dignified commemoration. Inscriptions, eulogies and monuments were just three elements of this much wider encounter with death. A contemporary of Foscolo, William Godwin, said that the tombs of the dead are ‘infected with the perishable quality of their histories.’34 All history, all literature, all tombs are perishable – it is up to societies what to preserve and what to honour. Examining the modes of remembrance of any given society gives us a greater idea of how that community functions and, as David Cannadine has commented, the history of death is at least as complicated as the history of life.35

In nineteenth-century Italy, monuments and inscriptions were referred to as public memories and they became prominent features on the city’s landscape. Through the presence of the dead, people were connected to their landscape. Furthermore, in honouring the dead and in showing respect for the past, they were also honouring their own society. The past was woven into the city and, in words and in marble, the fleeting thought was made eternal. Spirituality, morality and mortality were combined as orations were read beside the grave, inscriptions were written and monuments were erected across Tuscany. Through these expressions, the tomb and its manifold capacities were explored and the sepulchre became a receptacle for the hopes and passions of the living.
 
 

NOTE

1  Bruce Gordon and Peter Marshall (eds.) The Place of the Dead: Death and Remembrance in Late Medieval and Early Modern Europe, Cambridge: C.U.P, 2000, p. 16.
Giornale Arcadico, vol. 37, 1828, pp. 217-219.
3  Francesco Orioli said of this recent change: ‘Non è guari tempo che per una loro costumanza generale usavano gl’italiani di porre in ogni maniera di monumenti le iscrizioni di latino dettato; e rarissime allora si vedevano e spregiate l’epigrafi nella volgare favella. Oggi al pari di tante vecchie consuetudini questa ancora si vien mutando, e non mancano chiari e nobili ingegni a’quali sembra cosa conforme a ragione lo scrivere ciò che da tutti si vuole inteso in quell’idioma che tutti possano intendere.’ Iscrizioni di autori diversi con un discorso sulla Epigrafia Italiana del dottore Francesco Orioli, Bologna: Stampe del Sassi, 1827, p. 1.
4  Pietro Contrucci, Iscrizioni Italiane, Pistoia: Fratelli Bracali, 1837, p. ix. He continues, ‘Era omai tempo che la ragione distruggesse ancor questo errore; e il nostro popolo per le epigrafi scritte nella sua lingua, partecipasse alle gioie, agli affanni pubblici; piangesse alle sventure private de’suoi fratelli; sentisse la dignità sua e i magnanimi sensi: e per tal modo meglio si componesse alla buona vita civile.’
Antologia, (27, no. 81, settembre 1827). The author also said that the Latinists looked scornfully (in dispregio ed a vile) upon those who wrote in Italian.
6  Malvica said, ‘Il vivo dolore che ci agita per la perdita di persona cara, […], non può esprimersi per noi italiani se non colla lingua volgare, con quella lingua con cui siamo avvezzi sin dalla puerizia a palesare gli affetti dell’animo nostro.’ Ferdinando Malvica, Alcune iscrizioni di Luigi Muzzi, Roma: Aiani, 1825, p. 89.
7  ‘L’argomento di cui imprendo a trattare merita l’universale considerazione: poiché fu dettato di antico saggio, che i sepolcri, come le epigrafi, avessero tacita forza d’indirizzare le umane menti sul sentiero della virtù smarrita.’ Malvica, Iscrizioni italiane, 1830, p. 1.
8  He also says, ‘Il buon cittadino, mosso da molta carità della patria ch’egli ama più della vita, perchè ignaro della lingua latina si adira sovente di non poter apprendere le memorie che la fanno bella e santa.’ Vicenzo Emiliani, ‘Iscrizioni Italiane’ in Giornale Arcadico, (tomo 37, 1828).
9  Giuseppe Sacchi, Viaggio in Toscana, Milano: Pirotta, 1835, p. 183.
10  ‘Al Conte Antonio Papadopoli’, Firenze, 12 giugno 1827, in Opere a. c. di Antonio Gussalli, tomo 5, vol. 5, Epistolario, Milano: Borroni e Scotti, 1854, p. 431.
11  Giornale Arcadico, (vol. 37, 1828).
12  ‘Ogni cosa che riguarda coloro che ci furon cari ci dovrebb’essere carissima, e noi dovremmo cercar di raccogliere con singolar venerazione tutto ciò che appartiene a coloro, che, sebbene morti, son degni di vivere nei nostri cuori e nelle nostre menti. E certo da questo generoso sentimento, che tanto dovea signoreggiare nelle forti anime degli antichi, nacquero le pietose esequie, i funebri elogi, i monumenti, le lapidarie iscrizioni.’ Malvica, Iscrizioni Italiane, pp. 3-4.
13  For example, Gaetano Sorgato’s collection Memorie funebri starts with the words ‘Celeste è questa/ Corrispondenza d’amorosi sensi/ Celeste dote è negli umani; e spesso/ Per lei si vive con l’amico estinto,/ E l’estinto con noi…’ Memorie funebri, Padova: Tip. Del Seminario, 1856-1858.
14  Elizabeth Valdez del Alamo and Carol Stamatis Prendergast (eds.), Memory and the Medieval Tomb, Aldershot: Ashgate, 2000, p. 4.
15  Gaetano Sorgato, Memorie funebri, Padova: Tip. Del Seminario, 1856-1858, vol. 1, p. 1.
16  The expressions orazioni (funebri) and elogi were used interchangably in the nineteenth century and I will likewise use both terms to describe a speech given in honour of the dead.
17  Anon, Florilegio di Eloquenza Italiana, vol.1, Pistoia: Tip. Cino, 1839.
18  In the Florilegio, the authors were described as, ‘tutti concordanti di onorar la virtù dovunque si ammiri, a favorir la buona morale fondamento e vincolo principalissimo della civil società.’ p. 1.
19  F.D. Guerrazzi ‘Del modo di onorare gli illustri defunti’ in Scritti, Firenze: Le Monnier, 1847, pp. 171-190. (p.175).
20  Guerrazzi, Orazioni funebri d’ illustri Italiani dettate da F.D. Guerrazzi, Firenze: Le Monnier, 1848 (terza edizione), p. 13.
21  On the positive possibilities of death, Guerrazzi said, ‘La morte in questa nostra patria dilettissima non solamente par bella come sopra il volto di Laura, ma lascia eredità di vita.’ Ibid. p.111.
22  See for example, the debate on a monument to Appiani in the Conciliatore in 1819, and the debate on the commemoration of Andrea Vaccà in the Antologia and the Giornale de’Letterati in 1830.
23  Pietro Giordani, ‘Delle sculture ne’sepolcri’ (1813), in Opere a. c. di Antonio Gussalli, tomo 9, vol. 2, Milano: Borroni e Scotti, 1856, p. 296.
24  As David Irwin says, ‘The spectator or worshipper is now involved in a calmer piety, pulled into the monument by [the figure of] Italy.’ David Irwin, ‘Sentiment and Antiquity: European Tombs 1750-1830’ in Joachim Whaley (ed.), Mirrors of mortality, London: Europa, 1981, p. 141.
25  ‘Lettera dell’abate Giuseppe Greatti sul carme Dei Sepolcri sulle due versioni del primo canto dell’Iliade’ in Ugo Foscolo: scritti letterari e politici 1796-1808, a.c. di Giovanni Gambarin, Firenze: Le Monnier, 1972, p. 544.
26 'Fa d'uopo che i monumenti funebri abbiano uno scopo pubblico, e una intenzione morale ben pronunciata. Essi non devono partecipare a nulla di ciò che forma l'oggetto della debolezza or della vanità privata. Devono portare in fronte il pensiero della religione che li consacra, ed esprimere in turre le decorazioni la passion generale delle virtù che nei defunti si onorano. Egli è allora che i cimiteri e i mausolei divengono il deposito della pietà nazionale e lo spettacolo delle nazionali virtù; allora i sepolcri comandano la venerazione de' posteri; allora le lezioni dell'esempio sanzionate dal voto severo dell'opinion pubblica suggellano nel cuore de' nipoti il modello di tutti i caratteri virtuosi' Ibid., p. 545.
27  Biblioteca Riccardiana, Misc. 470.3.
28  See Luigi Mascilli Migliorini, Il mito dell’eroe, Napoli: Guida Editori, 1984.
29 Pietro Giordani, 'Delle sculture ne' sepolcri', p. 294.
30  For example, Mazzini said: La forza delle cose molto ci ha tolto; ma nessuno può torci i nostri grandi; né l’invidia, né l’indifferenza della servitù potrà struggerne i nomi, ed i monumenti; ed ora stanno come quelle colonne, che s’affacciano al pellegrino nelle mute solitudini dell’Egitto, e gli additano che in que’ luoghi fu possente città. Circondiamo d’affetto figliale la loro memoria. Ogni fronda del lauro immortale, che i secoli posarono su’ loro sepolcri, è pegno di gloria per noi; né potete appressare a quella corona una mano sacrilega, che non facciate piaga profonda nell’onore della terra che vi diè vita. O Italiani! Non obbliate giammai, che il primo passo a produrre uomini grandi sta nell’onorare i già spenti.’ Giuseppe Mazzini, Scritti, Imola: Cooperativa tipografico-editrice, 1906, vol. 1, ‘Dell’amor patrio di Dante’ pp. 22-23.
31  Monumenti sepolcrali della Toscana, disegnati da Vincenzo Gozzini, incisi da Giovan Paolo Lasinio, sotto la direzione dei signori Cav. P.Benvenuti e de Cambray Digny, Firenze: 1819.
32 He said 1Torni Morte la polve alla polvere; avvicendi e strugga il Tempo gl'Imperi, ma il nome dei Migliori alle vicende sopravvia e alle ceneri. Utile cura è lo abbellire le chiare tombe di fiori, e il commettere le lodi della virtù alla Poesia: il canto delle Muse immortali illustra all'un tratto gli estini, allevia il dolore de' vivi, ed accende di profittevole emulazione i venturi'. Angelo Mocchetti, Dei Monumenti, Parma: co'Tipi Bodiani, 1825.
33  Oreste Raggi, Monumenti sepolcrali eretti in Roma agli uomini celebri per scienze, lettere ed arti, disegnati ed incisi da Francesco Maria Tosi, Roma: Tipologia della Minerva, 1841. Raggi was quite proud that his contemporaries, like their ancestors, the Romans and the Etruscans, were showing an interest in tombs and commemoration.
32  William Godwin, Essay on Sepulchres, London: W. Miller, 1809.
33  David Cannadine, ‘Death and grief in modern Britain’ in Joachim Whaley (ed.), Mirrors of mortality, London: Europa, 1981, p. 242.
 

© Anne O'Brien, 2004



 

LA LETTERATURA DEL RICORDO

LAURA MELOSI


Quid illa sepulcrorum monumenta,
quid elogia significant,
nisi nos futura etiam cogitare?
(Cicerone, Tusc. XII)
1. L’espressione del ricordo attraverso l’iscrizione epigrafica costituisce una delle cosiddette «forme primarie della scrittura», ovvero quelle che teoricamente hanno origine con la scrittura stessa.1 Parto da questa prospettiva ampia e generale, nella quale si possono riassumere secoli e secoli di pratica antiquaria, per circoscrivere subito il campo di pertinenza del mio intervento, ovverosia quello dell’epigrafia commemorativa ottocentesca, entro cui si inscrive anche l’esperienza del Cimitero fiorentino detto ‘degli Inglesi’, esemplare per la compresenza di lingue diverse piegate ad un medesimo statuto di genere.2

Per quel che riguarda la nostra tradizione nazionale, l’epigrafia in lingua italiana, distinta in quanto tale dall’epigrafia greco-latina, è una pratica che si afferma e si dispiega in tutto il suo potenziale retorico e letterario proprio nel corso del secolo XIX.3 Non che antecedentemente non sia possibile documentare l’esercizio dell’iscrizione in volgare, attestato anzi fin dal secolo XII, ben rappresentato nel Cinquecento dalle prove frequenti di illustri letterati quali Bembo, Varchi, Speroni, Vasari e poi da secentisti maggiori e minori di cui mette conto ricordare almeno Bartoli e Tesauro, fino ad arrivare a Vico e Fantoni nel Settecento; ma è un dato di fatto che nell’Ottocento quella pratica che fino ad allora aveva avuto carattere episodico si istituzionalizza.

Al di là delle questioni di primogenitura e di primato estetico, che verso il terzo decennio del secolo vedono opposti l’affermato scrittore piacentino Pietro Giordani e il prolifico erudito pratese Luigi Muzzi,4 a rimanere fondamentale nella storia del genere sarà proprio la lezione di Giordani, per la consapevolezza ideologico-linguistica che le è sottesa e per l’originalità stilistica della sua messa in pratica. La rivendicazione dell’uso dell’italiano nell’espressione lapidaria, di contro al latino di cui essa era stata quasi totale appannaggio fino a quell’epoca, rientra infatti tra le battaglie condotte da Giordani a favore di una cultura progressiva e antiaccademica, capace di farsi strumento di emancipazione culturale e civile.

La nuova tendenza si afferma a partire dalla fioritura nella prima metà del secolo di collezioni antologiche e di raccolte d’autore compilate per fornire modelli di stile ad apprendisti scrittori di epigrafi; fioritura alla quale fa seguito una discreta produzione di dissertazioni e trattati in materia di epigrafia che svolgono la funzione di grammaticalizzare un uso dilagante su base prettamente empirica. È soprattutto dai trattati5 che si possono ricavare i caratteri di un genere ambiguo nella forma, apparentemente sospeso fra prosa e poesia, imparentato con l’epigramma ma solo alla lontana, perché mentre questo risponde alle leggi del metro, del verso e della rima, l’epigrafe se ne astiene appoggiandosi al ritmo come fattore di armonia e puntando sulla strutturazione iconica del componimento entro il perimetro lapideo. Ritmo e visualità sopperiscono pertanto al metro e collaborano in maniera sinergica alla riuscita letteraria di un testo che per essere compiuto deve necessariamente acquisire la sua forma nella pietra o nel metallo, o quantomeno nella simulazione della carta.
 

2. C’è una novella di Lorenzo Viani, scrittore anarchico toscano di primo Novecento, più noto forse come pittore espressionista, che senza volerlo ben illustra la condizione morfologica dell’epigrafe come iconismo strutturale. Il protagonista, Péggi, è l’addetto alla cura di un cimitero di paese e conosce a memoria tutti gli epitaffi delle tombe per averli puliti e ridipinti in oro e argento ogni anno all’approssimarsi dell’estate dei morti. Ma la sua passione va oltre il mestiere e si spinge fino all’apprendimento per diletto delle iscrizioni dei monumenti cittadini, con conseguente declamazione notturna in Piazza Grande in preda ai fumi dell’alcool. Questo «ubriacone che ama la bellezza della lingua epigrafica e i significanti»6 impiega più di un giorno e una notte per mandare a memoria l’epigrafe del monumento a Shelley, «un luterano inglese straccato dal mare e che ai tempi dei tempi fu bruciato sulla spiaggia», secondo il sintetico profilo che ne aveva udito tracciare da un vecchio del luogo. La disposizione grafica del brano tratto dal racconto distingue le righe epigrafiche dal testo così come Péggi lo impara:

 

PERCY BISSE SHELLEY
ANNEGATO IN QUESTO MARE

- Percy Bisse Scelli annegato di questo mare.

ARSO IN QUESTO LIDO

- Ardo di questo lido.

LUNGO IL QUALE MEDITAVA
AL PROMETEO LIBERATO

- Lungo del quale meditava al protemeo liberato.

UNA PAGINA POSTREMA

- Una pagina estrema.

IN CUI OGNI GENERAZIONE
AVREBBE SEGNATO
LA LOTTA, LE LACRIME, LA REDENZIONE
SUA

- In cui ogni generazione avrebbe sognato la lotta, le lagrime, la redenzione sua.

Dopo questo primo esercizio di ritenzione mnemonica, che già registra qualche non irrilevante scarto dal testo ufficiale ovvero qualche trasgressione del significato, le cose si complicano e quando sotto l’effetto del vino, nelle notti di luna piena, il beone Péggi tenta di declamare l’epigrafe per intero – avendone però ormai rimosso l’assetto visivo – il risultato comincia a farsi semanticamente paradossale:

- Dunque: Perci bisse Scelli, annegato di questo lido, arso di questo mare, lungo al quale malediva una pagina estrema al protomeo libberato in cui dove ogni progenie avrebbe sognato le lagrime, la lotta sua e la redenzione.


Sollecitato dalla voce fuoricampo di un infastidito ascoltatore che gli urla: «Bevene meno… briao», Péggi ci riprova, in un clamoroso crescendo di non-sense:

 
- Perci biss, perci bis Scelli, arso di questo mare, annegato di questo lido […] Arso di questo mare, dentro il quale meditava […] Annegato di questo lido, arso di questo mare dentro il quale protemeo postremo…

Infine, ridotta la filastrocca a pura estroversione del significante:

- Scelli bisse perì di questo lido, arso di questo mare, dentro il quale protemeo postremo avrebbe libberato le lagrime della lotta redentrice sua.


Amen, verrebbe da dire con sollievo. Invece Péggi, l’irregolare, il maudit se ne esce con una bestemmia di suprema originalità inventiva, «Dio anarcato», diventato anarchico pure lui.7
 

3. Un’altrettanto tenace, ma del tutto analcolica passione per la pubblica declamazione delle iscrizioni avevano coltivato nell’Ottocento tanti di quegli «epigrafai» contro cui, verso la fine del secolo, Carducci aveva lanciato i suoi strali dalle pagine della «Cronaca bizantina», infastidito dal fatto che una disciplina «che pei romani e pe’ nostri de’ secoli classici né meno era contata tra le specie e le forme della prosa letteraria» fosse assurta alla «gravità d’un affare di stato», comportando addirittura «meriti o demeriti politici» per l’indizio di liberalismo che gravava sui sostenitori delle iscrizioni in volgare.8 Immagino si trattasse, nel caso specifico, di roboanti epigrafi storiche, onorarie, elogistiche, ma Carducci non si mostra certo più compiacente verso le iscrizioni funerarie:

Quelle esposizioni di lacrime e singhiozzi in tante righe, mezze righe e righettine, al cospetto de’ curiosi che passano per il camposanto facendo critiche di stile e magari freddure su i nomi dei morti: quelle civetterie di carezzativi e diminutivi, di apostrofi ed epifonemi, incise e colorate a nero lucido e ad oro e rilevate in ferro, che durino, sì che il tuo povero qui la tua povera là possano farsi vedere nei giorni solenni a rivisitare le loro sventure irreparabili e la sensibilità loro in metallo: quello smascolinamento del dolore, quella prostituzione della pietà, quella eiaculazione dell’affetto, continuanti nella lucentezza del marmo a offendere con fredda svergognatezza i poveri e i forti che muoiono e soffrono in silenzio: tutte coteste cattiverie, ogni volta che mi avvien di percorrere qualcuno dei nostri pomposi cimiteri, m’indignano.9

I caratteri dello pratica epigrafica funeraria risultano perfettamente messi a fuoco nella stigmatizzazione carducciana: lo sminuzzamento della comunicazione nella misura troppe volte brevissima delle righe, l’espressione del dolore per esclamativi ed interrogativi retorici, un’effusione quasi leziosa degli affetti: in generale un’eloquenza tutt’altro che virile, fin troppo tesa alla commozione dell’ignaro visitatore, secondo un costume che è facile intuire il laico Carducci ritenesse doversi imputare ad un senso della pietas non civile, ma cattolico cristiano.

Per quanto i trattatisti di metà Ottocento avessero raccomandato discrezione e decoro nel compianto e nell’elogio del defunto10 – poiché il sepolcro doveva ciceronianamente essere un’ara di virtù –, a livello di applicazione pratica si può dire che gli epigrafisti, o epigrafai comuni si siano lasciati prendere la mano. Agli inizi del Novecento Adolfo Padovan, nel suo fortunato manualetto Hoepli di epigrafia, riteneva di dover spiegare ai moderni compilatori di iscrizioni che «l’epigrafe funeraria lamenta la perdita di una persona cara, ne ricorda le virtù ai superstiti; in essa si invoca per il trapassato la pace e la resurrezione; è insomma a un tempo un rimpianto, un saluto e un augurio» e per essere efficace deve saper parlare al cuore, deve essere affettuosa e commovente con semplicità, chiarezza, concisione e sincerità (ovvero «sincerità d’espressione», ché è celebre il motto dei francesi: menteur comme une épitaphe).11 L’accento è posto proprio sul dato intorno al quale Carducci aveva dissentito, vale a dire l’imprescindibile necessità che «la leggenda commuova il riguardante». La lode concorde al defunto «è pur suggerita dal gran mistero dell’al di là», spiega Padovan, poiché la «severa e tremenda maestà della morte» rende l’umanità intera solidale di fronte ad essa, consapevole dell’ineluttabile destino che la attende ma oggettivamente all’oscuro di ciò che questo comporta. Far blocco comune di fronte all’ignoto, nel compianto e nella speranza della meritata pace eterna, è una tendenza naturale negli uomini spaventati e poco importa che le parole del ricordo non rispondano pienamente alla verità di una vita vissuta.
 

4. Senza neanche bisogno di sforzare troppo la fantasia, si danno comunque nella realtà occasioni di per sé commoventi, e non si può negare che per esempio il sommo Giordani abbia avuto, per così dire, gioco facile nel suscitare emozioni, dettando questa epigrafe per il cimitero di Parma:

CHI POTRÀ CONSOLARMI D’AVERTI PERDUTA
O MIA DOLCISSIMA MARIANNA CALLOUD
VISSUTA MECO APPENA XI MESI?
QUANTA PIETÀ UDIR LE GENTI A DIRE
CH’ERI UN ANGIOLO
E NON DOVEVI COSÌ MORIRE DI XXIII ANNI
NÉ LASCIARE IL TUO BAMBINO DI LX GIORNI
E IN TANTO AFFANNO IL TUO SPOSO
GIÀ FELICE ED ORA INFELICISSIMO
GIUSEPPE CARMIGNANI
MDCCCXXXII12

Epigrafe di cui, parlando in termini esclusivamente formali e che prescindono dalla pietà dovuta per le storie individuali, è misurabile con chiara evidenza la distanza stilistica ed inventiva rispetto alla seguente di affine tipologia referenziale che si legge nel Cimitero degli Inglesi:

D.O.M.
CLARA ARABELLA CACCIA
NATA BIRCH
SPIRAVA IL 2 D’AGOSTO 1875
DI SOLI VENTICINQUE ANNI
COMPIANTA E DESIDERATA
DAL CONSORTE MARIO
DAI FIGLI PARGOLETTI
DAI CONGIUNTI
CHE QUI LA SPOGLIA MORTALE
LACRIMANDO NE COMPOSERO
FIDENTI NELLA DIVINA PROMESSA
«IO SONO LA RESURREZIONE E
LA VITA, CHI IN ME CREDE
SEBBEN SIA MORTO, VIVERÀ»
GIOV. XI. 25

Stile allocutivo, discorso in prima persona, elegante disposizione grafica che par quasi delineare la silhouette di un’urna cineraria nell’epigrafe di Giordani; adesione rigorosa alla precettistica, invece, per quella del cimitero fiorentino (pur non priva anch’essa di una sua ricercatezza grafico-visiva), in una successione del tipo identificazione della defunta, età, compianto della famiglia, citazioni dai Vangeli o versetti dei Salmi, e l’aggiunta agli anni vissuti di quel «soli» che, come raccomanda l’ottimo trattatista, «tocca soavemente il cuore, e ci fa vedere la doglia che ne ebbero i congiunti nel doversene dipartire».13
Fortunatamente, però, è proprio dell’arte trasgredire la norma e a ciò si deve l’esistenza di una minoranza di epigrafi che non rispettano il canone sopra individuato, dettate magari da poeti partecipi di un lutto o riprese dai versi di poeti del passato che ben si adattano a casi presenti. Straordinaria quella per la piccola Alice «Lily» Cottrell, creatura di un anno compianta con dignitosa ed affettuosa compostezza da Elizabeth Barrett Browning nel Cimitero degli Inglesi:

AND HERE AMONG THE ENGLISH TOMBS
IN TUSCAN GROUND WE LAY HER
WHILE THE BLUE TUSCAN SKY ENDOMES
OUR ENGLISH WORDS OF PRAYER

Significativa quella che si fregia di una citazione shakespeariana, dall’atto I, scena II della Tempesta, accompagnando nome e date estreme di Shelley sulla lapide del cimitero romano del Testaccio dov’è sepolto:

PERCY BYSSHE SHELLEY
COR CORDIUM
NATUS IV AUG. MDCCXCII
OBIIT VIII JUL. MDCCCXXII

     NOTHING OF HIM THAT DOTH FADE,
     BUT DOTH SUFFER A SEA-CHANGE
     INTO SOMETHING RICH AND STRANGE






5. È degno di nota il fatto che nelle epigrafi sepolcrali il racconto (se così si può chiamare) è di tipo mono-evenemenziale, cioè la diegèsi riferisce unicamente l’episodio della morte e tutto il resto è pura descrizione esornativa del defunto. Si danno, è vero, casi di indugio biografico nel testo, quasi di intreccio pseudo-romanzesco, e ne è un esempio, proprio nel Cimitero degli Inglesi, questa iscrizione all’esule mazziniano Salvatore Ferretti:

SALVATORE FERRETTI
NACQUE IN FIRENZE IL 15 SETTEMBRE 1817
DA OPEROSA E SANTA CARITÀ ISPIRATO
NEL SOCCORRERE AI MISERI SPESE LA VITA
NELLA OSPITALE INGHILTERRA
DOVE VENT’ANNI DIMORÒ
PRESO DA DESIDERIO DELLA PATRIA DILETTA
RACCOLSE IN ASILI I FANCIULLI
DA SNATURATI GENITORI VENDUTI
LE FIGLIE DEGLI INFELICI CHE IN ESILIO LANGUIVANO
CACCIATI DALL’ITALIA DIVISA
IN OPERA DI TANTA MISERICORDIA
DA PIE PERSONE LARGAMENTE SOCCORSO
E DOPO CHE A LIBERTÀ L’ITALIA RISORSE
TORNATO IN FIRENZE
APRÌ FRA ORFANE CASA DI RIFUGIO E DI EDUCAZIONE
QUI ARRIVATO DALLA FEDE IN CRISTO SALVATORE
DALL’AFFETTO DEI SUOI E DEGLI AMICI CONFORTATO
MORÌ 14 MAGGIO 1874






In generale, però, il discorso fa perno sull’azione assoluta del trapasso e se l’epigrafe deve commuovere, esiste forse qualcosa di più commovente di per sé della morte nel fiore degli anni?
 

6. «Muor giovane colui ch’al cielo è caro», aveva detto Menandro, ripreso non a caso da Giacomo Leopardi in epigrafe al canto Amore e morte del 1832, lo stesso anno in cui il poeta dettava questa iscrizione a Raffaello per la statua che il cavaliere Niccolò Puccini gli aveva fatto erigere nel giardino monumentale della sua villa di Pistoia, ideale tempio all’Italia:

RAFFAELLO D’URBINO
PRINCIPE DE’ PITTORI
E MIRACOLO D’INGEGNO
INVENTORE DI BELLEZZE INEFFABILI
FELICE PER LA GLORIA IN CHE VISSE
PIÙ FELICE PER L’AMORE IN CHE ARSE
FELICISSIMO PER LA MORTE OTTENUTA
NEL FIORE DEGLI ANNI
NICCOLÒ PUCCINI QUESTI LAURI QUESTI FIORI
SOSPIRANDO PER LA MEMORIA DI TANTA FELICITÀ
MDCCCXXXII

Iscrizione «arcibella»,14 l’aveva reputata Puccini, e con lui tutti coloro che poterono ammirarla nel suo parco patriottico. Iscrizione però, a rigore, appartenente alla classe delle onorarie, non delle funerarie, e lo si vede anche dal fatto che mancano tutti quei particolari anagrafici che sono invece indispensabili nell’epigrafe per la tomba dell’estinto e che ritornano, ad esempio, in quella al solito originalmente inventiva di Giordani per un figlio pittore di Carlotta Lenzoni de’ Medici, sepolto nella chiesa di Santo Spirito a Firenze:

AD ENRICO DEL CAV. FRANCESCO LENZONI
GIOVINE DI BELL’INGEGNO DI BEI COSTUMI
GIÀ LODATO NELLA PITTURA
FECE LA MADRE CARLOTTA DE’ MEDICI
CHE LO PERDETTE DI XXVI A. E 27 G.
LA MATTINA DE’ 26 AG. MDCCCXXXII

MIO BUONO ENRICO SE COME SPERO SEI GIUNTO
ALLA COMPAGNIA DEI SEMPRE VIVENTI
PREGA L’ETERNA BONTÀ PER LA TUA POVERA MADRE
PREGA PER TUO PADRE
E PER LI QUATTRO FRATELLI CHE TANTO AMAVI

E tornano anche in quella al giovane patriota Andrea Mayer che si legge nel Cimitero degli Inglesi, più ordinaria e meno naturale nelle scelte lessicali, ma comunque efficace nel trasmettere ai posteri la memoria di una gioventù esemplare prematuramente stroncata:

ANDREA MAYER
BELLO DI FORME
D’ANIMO GENTILE ED ELEVATO
NON ANCOR QUADRILUSTRE
IL DUOLO DELLE PATRIE SVENTURE
CON OSTINATO MORBO
RAPIVA ALLA LIBERTÀ DEI CIELI
QUESTO MARMO BAGNATO DALLE LACRIME
DEGLI ORBATI GENITORI E DEGLI INFELICI AMICI
ISPIRI AI POSTERI TUOI SANTI AFFETTI
NACQUE IN TOSCANA
IL 30 … BRE 1830
MORÌ IN FIRENZE IL 19 SETTEMBRE 1849

In conclusione, però, il dubbio è se tra la felicità cui inneggia Leopardi per la fine ottenuta come un dono nell’età fiorita e il più comune, disperato rimpianto per il sacrificio di una vita giovane si possa indicare una terza via di ‘appressamento alla morte’ e di consegna di sé al ricordo: una via non stoica, non cristiana, magari spirituale – se la fede è quella nella forza eternatrice dell’arte – oppure semplicemente esistenziale. Perché è questo che pare doversi cogliere nell’epigrafe sepolcrale forse più famosa del cimitero non cattolico di Roma, singolarmente deprivata d’identità, o almeno di quell’identità che si demanda ad un nome proprio scolpito nel marmo a caratteri capitali. Sono le parole dettate sul letto di morte, con il ‘cuore’ e con la ‘ragione’, da uno «young english poet», da incidere sulla lapide del sepolcro che avrebbe accolto «all that was mortal» di lui:
 
 

HERE LIES ONE
WHOSE NAME WAS WRIT IN WATER






Era John Keats.15
 
 

NOTE

1Le altre sono la lettera, il diario, il memoriale: cfr. G. FOLENA, Introduzione a La lettera familiare. Atti del Convegno di studi (Bressanone, 9-11 luglio 1983), «Quaderni di Retorica e Poetica», diretti da G. Folena, I, Padova, Liviana 1985, p. 5.
2 Strumento davvero prezioso per la conoscenza di questo luogo della memoria nei suoi aspetti storici, artistici e letterari è il sito internet www.florin.ms/cemetery1.html.
3 Un «curioso capitolo di storia culturale ottocentesca» l’ha definito Sebastiano TIMPANARO, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri-Lischi, 1969, p. 57, n. 30.
4 Sulla questione si vedano G. FERRETTI, Pietro Giordani epigrafista. Nuovi appunti, «Rassegna nazionale», XXXVIII, 1917, 1, pp. 37-46; C. GUASTI, Giuseppe Silvestri l’amico della studiosa gioventù, I, Prato, Ranieri Guasti, 1874, R. PAPI, Luigi Muzzi principe dell’epigrafia italiana, Prato, Edizioni dell’Azienda Autonoma di Turismo, 1966. Imprescindibili, in generale, gli studi di Piero Treves.
5 Si segnalano, tra gli altri, R. NOTARI, Trattato dell’epigrafia latina ed italiana, Parma, Ferrari, 1842; G. RAMBELLI, Trattato di epigrafia italiana, Bologna, Società Tipografica Bolognese, 1853 (nelle loro varie edizioni).
6 Così G. FINZI, Lorenzo Viani, in Novelle italiane, IV, Il Novecento, 1, a cura dello stesso, Milano, Garzanti, 2001, p. 217.
7 L’invettiva colorita e la bestemmia rientrano nello stile tipico di questo scrittore apuo-versiliese che ha saputo elevare i «vàgeri», i vagabondi di terra e di mare, alla dignità di personaggi letterari di intensa drammaticità. Su Viani si veda almeno M. MARCHI, L’eroe in stracci, saggio introduttivo alla raccolta delle novelle curata da Nicoletta Mainardi  Storie di vàgeri, Firenze, Vallecchi, 1988, 2 voll. Il racconto Péggi, pubblicato per la prima volta su «Il Resto del Carlino», 1° novembre 1925 e riedito l’anno successivo nel volume I Vàgeri (Milano, Alpes), si cita da questa edizione (I, pp. 157-161).
8 G. CARDUCCI, Epigrafi, epigrafisti, epigrafai, «Cronaca bizantina», 18 ottobre 1881; poi in ID., Confessioni e battaglie, serie seconda, Bologna, Zanichelli, 1902, pp. 127-136 (rispettivamente alle pp. 129 e 130).
9 Ivi, pp. 127-128.
10 «E delle doti del defunto si vuol fare discreto elogio […]. Per tal modo i sepolcri sono civili e morali scuole o, secondo scrisse Cicerone, are della virtù. Ma anche qui, come è detto, è mestieri di temperamento e discretezza. E perciò male avvisano quegli epigrafisti, che non si ristanno mai dal fare una lunga leggenda in lode del trapassato, checché egli si fosse in vita», R. NOTARI, Trattato dell’epigrafia latina ed italiana, cit., p. 152.
11 A. PADOVAN, Prefazione a ID., Epigrafia italiana moderna, Milano, Hoepli, 1913, p. XI.
12 Degli scritti di Pietro Giordani, V, Iscrizioni italiane, Milano, Silvestri, 1841, n. 66, p. 85.
13 R. NOTARI, Trattato dell’epigrafia latina ed italiana, cit., p. 165.
14 Dalla lettera di Puccini a Giovan Pietro Vieusseux del 15 marzo 1833, in Lettere di Niccolò Puccini pubblicate per le onoranze resegli in Pistoia nel settembre 1889, a cura di T. Sanesi, Pistoia, Niccolai, 1889. Sull’iscrizione leopardiana si veda E. PERUZZI, Raffaello d’Urbino, in ID., Studi leopardiani, II, Firenze, Olschki, 1987, pp. 139-156; sulla sua interpretazione in relazione alla coeva scrittura di Amore e morte e del Dialogo di Tristano e di un amico cfr. F. CERAGIOLI, I canti fiorentini di Giacomo Leopardi, Firenze, Olschki, 1981, pp. 150-153. Per quel che riguarda il senso dell’operazione patriottico-commemorativa di Puccini si vedano: G. BONACCHI GAZZARRINI, Puccini e Leopardi, in Niccolò Puccini. Un intellettuale pistoiese nell’Europa del primo Ottocento. Atti del Convegno di studi (Pistoia, 3-4 dicembre 1999), a cura di E. Boretti, C. d’Afflitto, C. Vivoli, Firenze, Edifir, 2001, pp. 201-222; L. DIAFANI, Leopardi, Niccolò Puccini e «Raffaele d’Urbino», in Leopardi a Firenze. Atti del Convegno di studi (Firenze, 3-6 giugno 1998), a cura di L. Melosi, Firenze, Olschki, 2002, pp. 489-500. Mi sia consentito anche il rinvio al capitolo L’amicizia con Niccolò Puccini dalle lettere nel mio In toga e in camicia. Scritti e carteggi di Pietro Giordani, Lucca, Pacini Fazzi Editore, 2002, pp. 157-193.
15 La metafora della scrittura sull’acqua appartiene al repertorio romantico inglese, con la doppia connotazione di acqua come strumento di diffusione (nell’Introduzione ai Songs of Innocence di Blake) o come strumento di cancellazione (nel Kubla Khan di Coleridge. Devo l’osservazione alla cortesia di Stefania D’Agata D’Ottavi, che ringrazio vivamente). A Joseph Severn l’interpretazione delle quattro corde rotte della lira greca che orna il monumento di Keats come metafora del genio classico del poeta stroncato dalla morte prematura.
 
This Grave 
contains all that was Mortal, 
of a 
YOUNG ENGLISH POET, 
Who, 
on his Death Bed, 
in the Bitterness of his Heart, 
at the Malicious Power of his Enemies, 
Desired 
these Words to be engraven on his Tomb Stone 

"Here lies One 
Whose Name was writ in Water. 
Feb 24th 1821 

                                                                                                  Roma, 'Protestant Cemetery'
 

© Laura Melosi, 2004


IL SUO RICORDO SIA DI BENEDIZIONE

DORA LISCIA BEMPORAD


l suo ricordo sia di benedizione”. In queste poche parole, che nella tradizione ebraica accompagnano sempre il nome di una persona morta, è sintetizzata la filosofia relativa al rapporto con la morte e con i luoghi in cui i corpi dormiranno per sempre il sonno eterno. Per poter comprendere l’iconografia sepolcrale dei cimiteri ebraici è, dunque, necessario chiarire alcuni concetti basilari, che accompagnano il lutto, e alcune regole che devono essere rispettate dai parenti e dalla Comunità. Mi soffermerò su quelli strettamente funzionali all’argomento di cui intendo parlare, anche se la ritualità presenta infinite sfaccettature che dipendono dal luogo in cui vengono osservate e, ovviamente, dall’epoca.

Sostanzialmente il periodo di lutto si svolge nell’arco dell’anno successivo alla morte di una persona e si suddivide in tre fasi: vi è un’osservanza stretta nella prima settimana, severa, nel mese successivo, meno accentuata, per un anno. Infatti, gli undici mesi successivi al seppellimento rappresentano una sorta di periodo di limbo in cui l’anima del defunto deve staccarsi dal corpo e in qualche modo purificarsi dei peccati che il corpo stesso ha compiuto; tale regola vale per chiunque, poiché si pensa che non esista alcun uomo che non abbia avuto pensieri impuri e, d’altra parte, non vi sia alcun malvagio che non si sia redento in alcune occasioni.1

Tuttavia, si recita il Kaddish, la preghiera dei defunti, scritta in aramaico la lingua del popolo e, dunque, comprensibile a tutti, per soli undici mesi. Si pensa che, soprattutto se si tratta della morte dei genitori, i figli non possano e non debbano pensare che il comportamento dei loro congiunti sia stato a tal punto cattivo che la loro anima impieghi un intero anno per liberarsi del corpo. In quel’arco temporale è permesso recarsi al cimitero solamente alla fine della prima settimana, del primo mese e dell’anno e, anche quando il periodo di lutto è terminato, vi sono solo poche occasioni, soprattutto alla vigilia di alcune feste, in cui vi è l’abitudine di visitare i propri cari. Sostanzialmente, la religione ebraica spinge le persone in lutto a riattaccarsi alla vita e, soprattutto, e a non essere indotte ad una sorta di idolatria della tomba in luogo del ricordo perenne di coloro che sono morti.

Per lo stesso motivo, in molte comunità, è permesso costruire la lapide solo ad una certa distanza dalla inumazione: alcuni lo fanno alla fine dei trenta giorni, altri alla fine dell’anno. Al momento del seppellimento ne deve essere posta una, anche se piccola, per segnalare la presenza della tomba affinché nessuno la calpesti; la lastra tombale definitiva dovrà inglobare la precedente che non può essere utilizzata per alcun altro defunto.

Lo Shulchan Aruch, il codice compilato nel XVI secolo da Joseph Caro e che raccoglie le regole halakiche, cioè quelle che determinano la normativa nella vita quotidiana, trascura o pone nettamente in secondo piano l’onorare i defunti attraverso la visita alle loro tombe, rispetto all’onore che è dovuto loro attraverso il ricordo di quando erano in vita. Solamente le azioni, che essi hanno compiuto, possono diventare di consolazione per chi resta. Anzi, è uso, in occasione dell’anniversario, organizzare un Limmud, ovvero una riunione di studio per suffragio dell’anima. Il morto deve vivere la vita eterna nel ricordo dei vivi e non nella terra o nel monumento in cui è stato sepolto. Per lo stesso motivo troviamo, tra gli arredi delle sinagoghe, oggetti donati in ricordo di un caro morto, siano suppellettili d’argento o ricami. Struggente e coeva al periodo che qui esaminiamo è la Mappà, donata nel 1884, che come altre della sinagoga di Firenze, reca una scritta che è un vero e proprio epitaffio:

In memoria del giovane Daniele Finzi, il suo ricordo sia di benedizione, Figlio di Mosè; era un caro bambino, timorato di Dio, figlio intelligente, abile nella lettura della Legge del Signore, che egli amava come un tesoro prezioso. Dono dei suoi genitori in ricordo del loro figlio, del loro unico figlio, gioia della loro anima.2
Anche in questo caso, si preferiva la memoria attraverso un arredo che i fedeli potevano usare quotidianamente e la cui scritta era visibile nel momento di maggiore aggregazione della collettività, cioè la liturgia sinagogale, piuttosto che attraverso una lapide che avrebbe letto solo chi si fosse recato al cimitero.

Già da questo breve accenno è possibile comprendere che il monumento funebre ha sempre avuto un peso relativo nella tradizione ebraica e, come vediamo, ad esempio, nelle medievali pietre incise della cinta muraria di Pisa o nel cimitero di Monte San Savino, ci si è limitati nel passato alla semplice lapide posta perpendicolarmente al terreno in corrispondenza della testa del defunto. Anzi, lo Shulchan Aruch addirittura prescrive di non godere di una tomba costruita e anche di non scrivere sulla lapide frasi che non siano in ebraico, probabilmente per arginare un uso invalso presso molte comunità di origine levantina. L’epitaffio era, comunque, una consuetudine di origini antiche anche se più frequenti erano scritte stereotipate come “Pace” o “La pace scenda sul luogo in cui riposa”. Assalonne volle per sé un monumento sontuoso perché non aveva “un figlio per perpetuare il suo nome”. (II Sam. 18.18)

La tomba di Assolonne, Gerusalemme

Tuttavia, in molti cimiteri si osserva un allontanamento dalla severità che le regole ebraiche prescrivevano.

Soprattutto a Livorno e a Pisa, già dal XVI secolo, possiamo trovare tombe che imitano nella struttura sarcofagi simili a quelli delle sepolture cristiane.3 Hanno la forma di cofano ma il defunto non vi si trova all’interno, dal momento che la legge prescrive che sia sotterrato almeno due metri sotto terra. Su molte lapidi rinascimentali, inoltre, troviamo stemmi al posto di simboli. Non si tratta, ovviamente, di stemmi nobiliari, dal momento che agli ebrei non era concesso avere titoli, ma di così detti “stemmi parlanti”, cioè simboli che interpretano il cognome del defunto e lo riproducono attraverso immagini, oppure immagini appartenenti alla tradizione ebraica, oppure figure che richiamano il luogo di provenienza della famiglia, o figure mutuate dalla tradizione araldica ufficiale. Sono blasoni costruiti artificiosamente, tanto che famiglie con lo stesso cognome potevano avere stemmi diversi a seconda del luogo in cui risiedevano, anche se i vari rami discendevano da uno stesso nucleo.4 In ogni caso non ci troviamo mai di fronte ad una iconografia cimiteriale strutturata secondo precisi canoni,  che traduca in immagini l’idea della morte, della sopravvivenza dell’anima e dell’oltretomba.  Frequente è invece l’uso della scrittura, che fin dal Medioevo, fu usata come strumento stesso di decorazione, per seguire il perimetro delle tombe o per riempirne i campi. A Livorno, addirittura fin dall’inizio del XVII secolo, cominciano a comparire, scritte in latino, utilizzate allo stesso modo.

Nonostante queste difficoltà è relativamente facile ricostruire l’evoluzione formale delle tombe e la trasformazione dei monumenti sepolcrali e della loro iconografia, poiché la proibizione di esumare i corpi, a meno che i resti del defunto non siano trasportati e seppelliti di nuovo in terra d’Israele, ha permesso che giungessero quasi intatti fino a noi. E’ vero che si sono verificate cicostanze in cui il terreno dove sorgevano i cimiteri ebraici sono stati espropriati, ma è vero anche che spesso le tombe sono state tolte e ricostruite nella nuova area, per restare aderenti il più possibile alla normativa religiosa ebraica.

Possiamo osservare nel cimitero dei “Lupi” a Livorno, costruito a partire dal 1893, tombe e monumenti funebri provenienti dai più antichi luoghi di sepoltura ebraici ed uguale fenomeno si è verificato a Firenze, nel cimitero fuori Porta a San Frediano, costruito a partire dal 1777, dove sono tuttora visibili lungo il muro lapidi che recano una datazione ben precedente. E necessario, inoltre, mettere in evidenza che il cimitero è il luogo in cui sono sepolti non solo i corpi ma anche tutti quegli oggetti, in particolare i sefarìm, i rotoli su cui è scritto la Torà (il Pentateuco), che sono diventati impuri perché alcune parti non sono più leggibili o la pergamena è danneggiata. Non vengono distrutti, ma sepolti come individui perché sono “corpi” che hanno perso la loro anima. Spesso una lapide o addirittura un cippo ricorda il luogo della sepoltura affinché nessuno li calpesti.

Già nel XVIII secolo si introdussero alcuni simboli, fino a quel momento mai usati, ma la situazione è cambiata definitivamente nell’ottocento e per diversi motivi. In primo luogo, il processo di emancipazione dai ghetti, cominciato in Toscana sotto il dominio lorenese, aveva spinto gli ebrei ad adeguarsi maggiormente agli usi e costumi della popolazione circostante. Tuttavia, le prime infrazioni ad una consolidata e severa tradizione avvennero già alla fine del Settecento, quando l’arrivo delle armate napoleoniche permise agli ebrei di uscire dalle anguste mura dei ghetti e di vivere, più o meno liberamente, ovunque lo desiderassero. A poco a poco anche certi aspetti della vita ebraica, condizionati non certo dalle imposizioni esterne ma dalla volontà delle autorità rabbiniche, cominciarono a cedere alle lusinghe del mondo circostante. In secondo luogo, tale volontà si era accentuata, almeno in Italia, con la nascita del Regno Italiano, quando essi furono equiparati totalmente nei diritti e nei doveri.

Se dobbiamo parlare di una iconografia funeraria ebraica è bene, dunque, collocarla a partire dal XIX secolo, l’età dove non solo, come abbiamo detto, gli ebrei si assimilarono alla popolazione circostante, ma anche quella in cui essi cominciarono ad esprimersi sia attraverso il linguaggio scritto, sia attraverso quello artistico. Inizialmente, gli ebrei indirizzarono questa nuova “volontà artistica”  nell’arte cerimoniale ma anche in campi che non erano stati toccati, come appunto i cimiteri, commissionando opere di un notevole rilievo a scalpellini e ad architetti cristiani; successivamente, furono essi stessi, quando cominciarono a formarsi artisti di una certa levatura, a disegnare i monumenti e le lapidi. Cito per tutti Marco Treves, l’architetto autore insieme a Falcini e Micheli della Sinagoga neomoresca di Firenze, il quale non solo intervenne sul vecchio cimitero di là d’Arno, restaurando la casa del guardiano e i locali di servizio, ma progettò anche innumerevoli monumenti, alcuni abbastanza convenzionali, altri in un rivoluzionario stile neo egizio o neo greco. Non mi soffermerò quasi affatto sui temi più strettamente storici e storico -architettonici dei due cimiteri fiorentini, perché oggetto di innumerevoli studi da parte di Giampaolo Trotta e di tesi di laurea discusse presso la facoltà di Architettura. Infatti, desidero solo analizzare l’iconografia cimiteriale sviluppatasi nel XIX secolo e come questa sia riuscita ad interpretare alcuni concetti.5

Attualmente, su tutte le tombe è raffigurata la stella di David. E’ bene premettere che questo, da simbolo cabalistico, usato soprattutto in circoli non ebraici, si affermò all’interno dell’ebraismo all’inizio dell’Ottocento, per divenire per gli ebrei quello che la croce era per i cristiani; è diventato il segno per eccellenza alla fine dello stesso secolo quando si legò al movimento sionista nato appunto nel congresso Basilea del 1897.

Dunque, come l’architettura sinagogale e l’arte cerimoniale dovettero adeguarsi alle nuove esigenze e alle nuove istanze di libertà, così l’arte funeraria fu obbligata a trovare una diversa strada per esprimersi.. A Firenze, così come in altre città toscane, i cimiteri più antichi sono stati espropriati e alcune tombe sono state trasportate in nuove aree. Attualmente ne rimangono due: uno fuori Porta a San Frediano (Viale Ariosto), che si cominciò ad edificare a partire dal 1777, l’altro nella zona di Rifredi (Via di Caciolle), che fu costruito dal 1880 su progetto di Marco Treves.

Certamente il processo di adeguamento della struttura dei sepolcri e della loro iconografia fu condizionato dal fatto che gli scalpellini, a cui ci si rivolgeva per costruire la lapide e il monumento, non erano ebrei e sottoponevano all’approvazione progetti che non erano altro che la corruzione di schemi già destinati a committenti cristiani. Ad esempio, si sa che per il cimitero di via di Caciolle si ricorreva a botteghe di marmisti assai noti a Firenze come Labardi, “scarpellino e marmista in via del Moro presso la croce del Trebbio”, gli Alisi, i Bargagni e David Sollazzini & Figli.6

Nacquero così strutture sempre più complesse. A lapidi inserite entro semplici archi a tutto tondo, si affiancarono veri e propri monumenti. Inizialmente, anche se l’iconografia è caratterizzata da una grande complessità, non si ricorreva mai a figurazioni umane o animali. Ad esempio l’artista, per ora ignoto ma di ottima qualità, autore della tomba di Cesare Lampronti, morto nel 1825, collocata nel cimitero fuori porta a San Frediano, nonostante la complessità nell’impostazione, pone sul coperchio del sarcofago a forma di parallelepipedo i simboli di quello che il defunto era stato in vita, un medico, la cui professione è rappresentata dal bastone di Esculapio, dalla penna e dal libro aperto. Ancora nell’antico cimitero spicca la tomba di Angiolo Levi dove il sarcofago, coperto da un ricco drappo marmoreo, poggia su di un alto basamento sui cui lati brevi è raffigurato il simbolo della famiglia: una mano che versa acqua da un a brocca entro un bacile. Si riferisce al compito di coloro che appartengono a quella famiglia di lavare le mani dei Coanim, i Sacerdoti, prima di determinate preghiere. Tale simbolo e quello con le mani benedicenti, propria della famiglia Coen, che possiamo definire stemmi parlanti, sono forse tra i più antichi che troviamo sulle tombe e quelli che hanno avuto una ininterrotta continuità. Non siamo ancora alla cappella funeraria ma la struttura comincia a diventare assai complessa e soprattutto “visibile” nel panorama del cimitero dove continuano a predominare le steli poste perpendicolarmente in corrispondenza della testa del morto.

Anche quando non si tratta di opere tanto imponenti, si avverte una trasformazione, non solo iconografica, quanto di concezione generale. Uno dei casi più significtivi è rappresentato da uno struggente monumento nel cimitero di Pitigliano. La lastra tombale è orizzontale sul terreno e appena rialzata, coperta da un drappo, sulla quale si adagia una bambina vestita del suo abito migliore con la testa eretta e il gomito appoggiato su di un cuscino come se stesse per alzarsi. Poco oltre vi è un enorme angelo seduto che piange sulla tomba sottostante. Questi due monumenti, di straordinaria forza e qualità, contrastano nettamente con gli usi fino a qui descritti, introducendo la riproduzione di figure umane. La strada era evidentemente aperta anche per altre raffigurazioni, questa volta con valenze niente affatto artistiche, vale a dire l’inserimento di una immagine fotografica del defunto entro una cornice ovale, come vediamo nel cimitero di Livorno. La sublimazione della memoria, il ricordo delle virtù, così come vuole la tradizione, è vanificata dalla esplicita cristallizzazione dell’immagine in un momento preciso della vita dell’individuo, soluzione quanto più lontana possibile dalla concezione religiosa ebraica. In Toscana questi episodi risultano relativamente rari, mentre frequenti sono, ad esempio, in Piemonte o in Lombardia.

Sia nel cimitero di Viale Ariosto, sia in quello di Rifredi, o in quello di Livorno numerose sono le cappelle mortuarie le quali prendono a modello grandi esempi della tradizione locale. Se Livorno si esprime più facilmente in un linguaggio liberty, Firenze si rivolge alle glorie del passato citando l’Egitto, nella cappella Levi del 1881, in riferimento alla Ghiacciaia delle Cascine o, piuttosto, all’egittomania affermatasi con l’apertura del canale di Suez, all’antichità classica, nella cappella Servadio del 1875, al Rinascimento fiorentino, nella cappella dalla Ripa del 1883, in quella Franchetti del 1886 e in quella Levi del 1915, al neomoresco della cappella Franchetti-Kohen, al Gotico, nella cappella Padoa Modena, del 1887. A proposito di quest’ultima esiste un’ampia documentazione che dimostra come Treves, fino a quando fu vivo, cercò sempre di indirizzare la progettazione dei monumenti in funzione di una visione artistica unitaria del luogo. Si appella, infatti, al fatto che la struttura contraddica “il rito israelitico” per cercare di intervenire sul sepolcreto che egli definisce “a colombario”, sul modello di quelli fatti nei cimiteri cristiani, quando, probabilmente, lo irritava la eccessiva altezza del monumento rispetto agli altri. (G. 1. 1. )

Le cappelle sono di grande interesse storico artistico e ciascuna di esse meriterebbe uno studio separato; tuttavia le prendiamo in considerazione in questa sede anche solo per evidenziare il cambiamento di gusto e di atteggiamento della comunità ebraica nei confronti del cimitero. Dai disegni conservati nell’Archivio della sinagoga di Firenze sappiamo che Marco Treves, oltre ad aver ristrutturato il cimitero fuori porta a San Frediano e averne disegnato molte tombe, si dedicò con ancora maggiore enfasi alla ideazione di  quelle del cimitero di Rifredi, sorto, come abbiamo visto, su un suo preciso progetto. Spesso sono piccoli tempietti a pianta quadrata, dove quattro colonne poggiano su un basamento e sorreggono timpani con, ai lati, acroteri che includono palmette; in altri casi, la lapide è inserita tra due lesene scanalate sormontate da timpani entro i quali sono inserite immagini ricorrenti: la fiaccola rovesciata, simbolo della vita che si è spenta, la clessidra alata, simbolo del tempo dell’uomo, il disco attraversato da una fascia, anch’esso alato, simbolo dell’anima che si diparte, le due mani che si stringono, segno di pace. Queste figurazioni, che non mi risulta fossero presenti nella iconografia funeraria più antica, sono frutto del rinnovamento che coinvolse tutta l’arte ebraica. Poiché fin dall’inizio del XIX secolo, in Inghilterra e in Francia, e dopo l’Emancipazione, anche in Italia, si permise agli ebrei di accedere a titoli nobiliari, gli stemmi fittizi utilizzati fino a quel momento furono abbandonati per essere sostituiti con rinnovate strutture decorative e simboliche. Nello stesso cimitero di Rifredi  vi è una tomba assai complessa e di sapore neoquattrocentesco di Enrichetta, morta nel 1900, e Adolfo Scander dei Levi, morto nel 1912, il quale nell’epitaffio è accompagnato dal titolo di Barone.

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English Cemetery


 

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Si costruiscono in tutto l’arco del secolo i cippi in forma di colonna spezzata, simbolo della vita che finisce, alcuni coronati di serti, altri di cartigli. Talvolta sulla sommità è posto un vaso, su cui è adagiato un drappo. In altri vi è una lampada. Non dobbiamo dimenticare che nella tradizione ebraica la luce rappresenta la parte divina che ciascun uomo ha in sé ed è simboleggiata da una lucerna raffigurata in innumerevoli forme nei sepolcreti. Rara è invece la immagine della menoràh, la lampada a sette bracci, un tempo nel Tempio di Gerusalemme. Per molto tempo ne fu proibita la riproduzione, soprattutto quella tridimensionale, e solo nell’ottocento furono fatti i primi oggetti che derivavano la propria forma da quella tramandata dal bassorilievo sull’Arco di Tito, in cui i Romani portano in trionfo gli arredi divenuti bottino di guerra. A ragion di più si riscontrava una certa remora a raffigurarla in un cimitero. Non a caso si trovano splendidi esempi solo nel XX secolo, quando ormai la tradizione e l’ortodossia, almeno in Italia, si erano definitivamente corrotte, in alcuni casi aderenti al modello, come a Pitigliano nella tomba di Corrado Pergola del 1911, in altri assolutamente stilizzati, come nella tomba Coen progettata da Dario Viterbo, straordinario artista degli anni tra le due guerre e autore di molte tombe nel cimitero di Rifredi.

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Il cimitero 'degli Inglesi'

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Fin dall’inizio dell’ottocento, come abbiamo già visto, emulando la tradizione cristiana, si fanno più frequenti le citazioni del ruolo che il defunto aveva avuto nella società, non solo attraverso la riproduzione di oggetti che potevano alludere alla sua professione, ma anche attraverso lunghi epitaffi. A questo si aggiunge il fatto che l’Emancipazione ebraica aveva aperto la possibilità di esercitare arti, professioni e mestieri fino ad allora precluse; spesso orgogliosamente si esalta nell’epitaffio il ruolo ricoperto dal defunto nella società civile al di là del suo reale merito. Ne è un esempio  il testo inciso sulla tomba di Enrico Uzielli morto nel 1888: “Artista per elezione nel culto della pittura sognò la gloria, amò riamato la famiglia e ivi travide la felicità. A trentaquattro anni inesorabile destino tutto troncò”.

Non a caso è prevalente la scrittura in italiano di testi, anche poetici, mentre all’ebraico è lasciato uno spazio assai ridotto, spesso riconducibile ad un versetto, al nome e alla data. La parola “Shalom” (pace) è ottenuta sia con una iscrizione ebraica sia con le due mani intrecciate, che in origine era anche l’emblema, almeno a Venezia, della famiglia Sullam (Shalom). Alcune formule, spesso sintetizzate nelle iniziali delle parole di cui sono composte, insieme ai dati anagrafici, sono quanto rimane di una tradizione illustre; probabilmente l’imperante standardizzazione è più aderente alle regole dell’ebraismo ortodosso, ma è altrettanto certamente privo di quel pathos che aveva coinvolto l’ebraismo riformato del XIX secolo.
 

NOTE

1 In un contesto come quello di questi brevi appunti non ho ritenuto necessario approfondire il tema della morte e dei riti collegati in modo ampio. Chi volesse approfondirlo può consultare le  seguenti voci nell’Encyclopaedia Judaica (Jerusalem, Keter Publishing House Ltd., 1972): Cemetery, Death,Epitaphs, Mourning, Tombs and Tombstones. Di qualche utilità è anche il testo di Alan Underman, Dictionary of Jewish Lore and Legend, London, Thames and Hudson Ltd, 1991 (traduzione italiana: Dizionario di usi e leggende ebraiche, a cura di Anna Foa, Roma-Bari, La Terza, 1994). I testi menzionati forniscono anche un’ampia bibliografia.
I ricami datati della Sinagoga di Firenze, in I tessili antichi e il loro uso, atti del Convegno  CISST, Torino 1986, pp. 76-77.
3  Si farà riferimento solo ai cimiteri toscani dal momento che ciascuna regione e, addirittura, ciascuna città presenta no caratteri loro propri. Per notizie cfr.: Liscia Bemporad-A. M. Falco Tedeschi, Toscana. Itinerari ebraici, a cura di A. Sacerdoti, Venezia, Marsilio, 1995
4  Cecil Roth, Stemmi di famiglie ebraiche italiane, in Scritti in memoria di Leone Carpi. Saggi sull’Ebraismo italiano a cura di Daniel carpi, Attilio Milano, Alexander Rofé, Milano-Gerusalemme, Editrice Fondazione Sally Mayer-Scuola Superiore di Studi Ebraici, pp. 165-183; Franco Pisa, Parnassìm, le grandi famiglie ebraiche italiane dal secolo XI al XIX, in Annuario di Studi Ebraici a cura di Ariel Toaff, X, 1980-1984, Roma, Carucci Editore, pp. 291-491.
5  GIAMPAOLO TROTTA, Cimiteri ebraici a Firenze. Per un itinerario attraverso i luoghi storici e urbani della memoria, in «Storia Urbana», LIX, 1992, pp. 127-151;  Idem, Luoghi di culto non cattolici nella Toscana dell’Ottocento, Firenze, Becocci, 1997.
6  A.C.E.Fi, G.1.1, Ricevute.
 

© Dora Liscia Bemporad, 2004


ARCHITETTURE DEI CIMITERI 'DEGLI INGLESI' E 'AGLI ALLORI'

GIAMPAOLO TROTTA


I. L’insula böckliniana del Cimitero degli Inglesi: genesi di un simbolo nella forma urbis
 

Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti
contende.

Ugo Foscolo, Sepolcri


el 1827 il demanio granducale cedette per 15.214 lire toscane 8.000 metri quadrati di terreno alla Chiesa Evangelica Riformata svizzera perché vi potesse creare il proprio cimitero.

La comunità elvetica di allora era per lo più costituita da gente proveniente dai Grigioni, in massima parte dall’Engadina, piccoli commercianti e ‘industriali’ che talvolta, nel corso del secolo, riusciranno ad avviare esercizi di successo in città e fuori (in modo particolare caffè e drogherie): si pensi ai Cisepp, ai Mosca, ai Fent, ai Pult e a tutta una serie di loro noti locali, come Il Panone e L’Elvetico in Por Santa Maria, L’Elvetichino in piazza del Duomo, Il Caffè degli Svizzeri in piazza Santa Croce, Gilli in via Calzaiuoli e vari altri. Si erano stabiliti prevalentemente nei luoghi-chiave del commercio fiorentino ottocentesco: il nucleo storico (specialmente tra il duomo e Mercato Vecchio), il Pignone ad Ovest e Rovezzano ad Est. Fra tutti i più noti saranno i Wital, con il rammentato caffè de L’Elvetico, il loro emporio di borgo degli Albizi e il mulino ed il laboratorio meccanico di Sant’Andrea a Rovezzano.

Con il fattivo interessamento anche dei Wital, che esercitarono tutta la pressione possibile, e di Jean Pierre Gonin, il Granduca Leopoldo II concesse quel terreno per il cimitero, posto sulla cosiddetta ‘montagnola’ fuori Porta a Pinti o Fiesolana (risalente al 1284), a ridosso delle mura. Tale rilievo artificiale, ovviamente, non esisteva nel Medioevo (quando vi erano i fossati e le carbonaie) e non è documentato neppure nel Quattrocento: si confrontino, ad esempio, la veduta della “Porta ad Pintim” e del suo antiporta nell’immagine di Florentia eseguita nel 1472 da Piero di Jacopo del Massaio per la Ptolomaei Claudii Cosmografia oppure la notissima veduta detta ‘della Catena’, sempre dell’ottavo decennio del Quattrocento. Il terreno di riporto, di cui era costituito, fu impiegato durante la realizzazione del bastione posto immediatamente a sudest della ‘postierla’ di Pinti, ideato da Michelangelo quando fu nominato procuratore delle fortificazioni della città prima dell’assedio del 1529/’30. A differenza di altri (come, ad esempio, quello in corrispondenza di porta a San Gallo), questo bastione non era a difesa di un’angolata delle vecchie mura trecentesche, ma serviva a difendere esclusivamente la postierla e, pertanto, aveva assunto una configurazione maggiormente allungata, sostanzialmente priva di accentuati orecchi; già nella veduta di Stefano Bonsignori (1584) la sommità del bastione si configura come un modesto rialzamento cespuglioso del terreno, immagine poi confermataci nella pianta di Firenze redatta dai Capitani di Parte Guelfa nel 1690, dove, per altro, è ancora leggibile perfettamente il perimetro del bastione cinquecentesco, con la strada esterna alle mura a scarpa che lo circonda alla base. La planimetria di tale bastione, oramai diruto, risulta totalmente sfrangiata nella pianta di Firenze eseguita da Ferdinando Ruggeri nel 1731 ed in quella di Odoardo Warren del 1749; nell’altra pianta, redatta da Francesco Magnelli e da Cosimo Zocchi nel 1783, osserviamo come una ‘stradella’, che iniziava immediatamente al di fuori di porta a Pinti, risaliva la ‘montagnola’.

Un’area ad moenia, ‘fuori’ - fisicamente e simbolicamente - dalla conchiusa città cattolica antica, esattamente secondo la prassi dei cimiteri ebraici e, segnatamente, anche di quello fiorentino fuori porta San Frediano o dell’altro - precedente - aperto negli spalti delle vecchie mura tra porta Romana e la stessa porta San Frediano. Un’area allora scarsamente edificata e ancora a carattere rurale, dominata dalla verde montagnola, come la vediamo in una litografia di Gherardi e di Ballagny, basata su un disegno del Gelati: perimetrata da un muro, con un cancello tra pilastri di muratura, al suo interno vi si trovavano una cisterna (più prossima alla porta) e una serie di cipressi e forse di gelsi, piantati sul terreno che andava a semisommmergere la torre meridionale delle vecchie mura.

Pur tra l’opposizione, talvolta accesa e violenta, di conservatori e di clericali, nel 1828 fu incaricato del progetto per il cimitero il giovanissimo Carlo Reishammer (1806-1883), in quell’anno ancora neppure diplomatosi all’Accademia di Belle Arti di Firenze (si diplomerà, infatti, nel ‘29 con Giuseppe Vannini). Reishammer, pur nato a Firenze, era d’origine austriaca; dopo aver studiato a Roma e a Firenze, raggiungerà in seguito un qualche prestigio sociale sposando la figlia di Alessandro Manetti nel 1834 ed una certa fama grazie alle sue opere realizzate a Livorno ed in Maremma, particolarmente con la chiesa di San Leopoldo a Follonica, dal bellissimo ed inconfondibile pronao in ferro e ghisa, opera del 1837/1838. L’inconveniente di dover inumare nel cimitero di Livorno (fino ad allora l’unico esistente) indusse anche gli Inglesi residenti a Firenze ad utilizzare ampiamente quello nuovo degli Svizzeri (finendo, anzi, per dargli il nome), come poi faranno anche tutte le altre comunità non cattoliche.

L’area cimiteriale, ovvero il “Cimitero dei Protestanti”, come possiamo osservare anche nelle mappe catastali del quarto decennio dell’Ottocento e nelle piante di Firenze eseguite dal Fantozzi nel 1843 e dal Pozzi nel 1855, si articolò attorno a due vialetti bordati di cipressi intersecantisi a croce, nel cui punto di intersezione, sulla vetta del modesto rilievo, venne innalzata una colonna marmorea conclusa da una croce, donata solo nel 1858 da Federico Guglielmo di Prussia. I quattro riquadri nei quali era suddiviso lo spazio per le inumazioni non pare fossero di superficie analoga. L’ingresso avveniva da via Lungo Le Mura a sud, nei pressi delle ghiacciaie, e la superficie inglobava anche il torrione medievale immediatamente a Mezzogiorno della porta, mentre l’area più prossima alla postierla stessa, con la ricordata cisterna, era esclusa. Nel 1860, ottenuto altro terreno contiguo verso sudest, fu creato l’edificio d’ingresso, qualificato dal grande fornice centrale, in asse con il vialetto principale e la rammentata colonna.

Con l’avvento della capitale a Firenze e l’attuazione del piano regolatore e d’ampliamento della città ideato da Giuseppe Poggi nel 1865, com’è noto, vennero abbattute le mura urbane e al loro posto nacquero i viali di circonvallazione, sulla falsariga degli esempi viennese e parigino. Generalmente le porte furono mantenute a decorazione monumentale delle nuove piazze, ma nel caso della porta a Pinti questa venne demolita, conservando, invece, all’interno della nuova piazza (che nel 1870 verrà dedicata a Donatello) il Cimitero degli Inglesi, pur menomato di una parte più prossima alle mura e regolarizzato entro una forma ellittica, perimetrata da una cancellata tipicamente poggiana. Così lo stesso Poggi, nel 1865, definisce l’intervento proposto: “presso la Porta a Pinti il cimitero dei Protestanti sarà isolato, cinto di scogliere e cancellate e nel Parterre che lo fronteggerà sarà un monumento ai Mille”.

In effetti, l’intervento poggiano per piazza Donatello (da lui originariamente denominata Piazza della Porta a Pinti) si qualifica, in un certo senso, come anomalo rispetto alle altre piazze realizzate; generalmente, infatti, queste rappresentano una sorta di ‘dilatazione a bulbo’ dei viali attorno alle superstiti porte medievali e la loro forma o idea generatrice primaria è quella che ha come matrice l’iconografia ovale (così piazza Beccaria, ma anche la prima versione per le piazze San Gallo e della Porta al Prato). In questo caso, invece, lo spazio vuoto della piazza è sostituito dal suo ‘negativo’, vale a dire lo spazio pieno ed emergente della montagnola cimiteriale, mentre la piazza vera e propria viene decentrata asimmetricamente verso est, in posizione nettamente subordinata.

Baricentro non diviene l’antica struttura medievale, bensì il cimitero, con lo scopo di salvare quest’ultimo e, secondariamente, il vicino giardino Della Gherardesca, ritenuti più importanti anche per motivi diplomatici e politici. Non ci si vuole inimicare, infatti, gli stranieri, particolarmente gli Inglesi, la cui colonia è la più folta e importante tra quelle esistenti a Firenze (su circa 1400 sepolcri presenti nel cimitero, 760 sono di Inglesi); inoltre, proprio essi erano coinvolti nelle opere di ‘hausmannizzazione’ della città e ad una ditta inglese era stato dato l’appalto per la demolizione delle mura.

Il Poggi pensò la nuova sistemazione del cimitero come un’area verde, anche se non pubblica, e come una sorta di arredo urbano dei viali, al pari di altri parterre e giardini, ma nella sua decisione progettuale stava in nuce già la nuova valenza del complesso, vale a dire quella di suggestivo ‘relitto’ urbano. Il cimitero, infatti, mutava radicalmente di significato e di ruolo nel contesto della città: non più un’appendice extramuraria alla città dei vivi, ad essa strettamente unita (ad moenia) e lungo una direttrice territoriale che si dipartiva da Porta a Pinti (vero e proprio cordone ombelicale di unione fisica e simbolica, come era stato anche nei cimiteri dell’antichità classica), ma quasi una nave alla deriva, arenatasi nella nuova viabilità, isolata e gelosa custode delle memorie di una comunità da traghettare ad aeternum. Proprio ora nasce, in una visione romantica ed escatologica, l’idea dell’isola delimitata dalle “scogliere” poggiane ovvero della ‘nave’ nordica che trasporta all’Isola dei Beati i morti di ben 16 nazioni diverse (tra gli altri, oltre a quelli degli Svizzeri e degli Inglesi, degli Americani, degli Austriaci, dei Russi, dei Polacchi, degli Ungheresi e dei protestanti italiani).

I lavori di ultimazione del nuovo recinto poggiano al cimitero si conclusero all’inizio degli anni Settanta, in coincidenza all’incirca con il trasferimento della capitale a Roma, e le inumazioni continuarono solo fino al 1877; poi, essendo già zona pienamente urbana, il cimitero fu ufficialmente chiuso nel 1878, “isola oramai antica in una città sempre più diversa”, come ha giustamente scritto Luigi Santini nel 1981.

Tra le ultime inumazioni, a suggellare questa onirica isola della memoria, vi fu quella della piccola Maria Anna Böcklin (morta nel 1877), che ci ricorda il primo soggiorno fiorentino del padre Arnold, allora cinquantenne . Il suo celebre quadro intitolato L’isola dei morti, la cui versione più nota, del 1880, è ora allo Staatsmuseum di Basilea, che taluni ritengono ispirato all’isola di Ponza, nel suo visionario e mitico tardoromanticismo impulsivo e simbolicamente fantastico, dalle tinte fosche e solenni, tragiche e sublimi, ricorda sorprendentemente, con le sue allegoriche scogliere bucate dai sepolcri e con i suoi altissimi cipressi, proprio l’‘isola’ poggiana del Cimitero degli Inglesi, che si eleva statuaria, muta e grandiosa testimonianza significante tra i ‘fiumi’ ineluttabili dei nuovi viali.

Non a caso, quando il Führer giunse in visita a Firenze nel 1938, volle recarsi in ‘pellegrinaggio’ proprio là, all’isola fiorentina dei Beati e degli Eroi, e la lucida follia hitleriana, adorante la leggenda ‘ariana’ di Böcklin, vaneggiò credendo di aver ‘compreso’ solamente in tale luogo quel quadro, così prediletto e distorto nella propria paranoica e ossessiva sete di mito e di morte.
 

II. Il Cimitero degli Allori: la nuova oasi preraffaellita

. . . hinter den Zäunen der Steinmetzereien, wo zu
Kauf stehende Kreuze, Gedächtnistafeln und Monumente
ein zweites, unbehaustes Gräberfeld bilden, regte sich
nichts und das byzantinische Bauwerk der
Aussegnungshalle gegenüber lag schweigend im Abglanz
des scheinenden Tages. Ihre Stirnseite, mit
griechischen Kreuzen und hieratischen Schildereien in
lichten Farben geschmückt, weist überdies symmetrisch
angeordnete Inschriften in Goldlettern auf,
ausgewählte, das jenseitige Leben betreffende
Schriftworte, wie etwa:"Sie gehen ein in die Wohnung
Gottes" oder: "Das ewige Licht leuchte ihnen" . . .

Thomas Mann, Der Tod in Venedig

Fin dal 1861, ancor prima della ‘rivoluzione’ urbanistica del Poggi, si era compreso che ben presto il cimitero di Pinti non sarebbe stato più sufficiente. Così, in quell’anno, grazie all’iniziativa di Francesco Madiai, fu creato un Comitato Evangelico Italiano per l’Erezione di un Nuovo Cimitero. Nel 1865 il Comitato venne in possesso di un terreno non distante da Pinti, ubicato fuori porta alla Croce, ma non potette essere impiegato perché in quei convulsi ‘anni della capitale’ tale terreno fu espropriato dal Comune di Firenze. Nel 1869 il Comitato acquistò dai Mazzei un altro terreno, di ben 70.000 metri quadrati, con una villa annessa, che era stata già dei Benci e poi dei Gianfigliazzi, degli Usimbardi e dei Pandolfini. Questa volta il vasto appezzamento si trovava dalla parte opposta della città, nel territorio dell’allora Comune del Galluzzo, affacciandosi su quel tratto di fondovalle della via Senese aperto attorno al 1840 come percorso alternativo a quello antico di crinale, ora via del Podestà. Dal nome di tale proprietà, Gli Allori, verrà denominato anche il futuro cimitero.

Nel dicembre del 1875 fu consacrato dal vescovo anglicano di Bombay e nel 1876/’77 iniziarono i lavori, su progetto dell’architetto Giuseppe Boccini (1840-1900), membro del Collegio degli Architetti ed Ingegneri in Firenze, che sarà anche autore della chiesetta americana di piazza del Carmine e direttore dei lavori di quella russa. Collaboratore di Mariano Falcini, in seguito membro del Consiglio Direttivo della Società per la Difesa di Firenze Antica e dell’Arte Pubblica, fu autore di numerosi palazzi, ville, villini e sedi di banche a Firenze e fuori della Toscana , ma soprattutto di una nutrita serie di cappelle cimiteriali alle Porte Sante e nei cimiteri ebraici, oltre a dare il disegno per quella neogotica dei Nikolajev a Odessa, commissionatagli nel 1881. Lavorò spesso per le varie comunità straniere di Firenze, divenendo uno degli architetti fiorentini più apertamente ‘europei’ del tempo, impiegando ampiamente i vari stili dello Storicismo (soprattutto quelli neorinascimentale e neogotico).

L’inaugurazione avvenne il 26 febbraio 1878, ma la cappella del cimitero fu ultimata solo nel 1880.
La costruzione, vicina all’ingresso, fu disegnata dal Boccini nelle canoniche forme neogotiche, allora così care alle comunità straniere presenti a Firenze (specialmente a quelle inglese e americana, intrise di cultura preraffaellita), e incentrata sul passaggio mediano in asse con il viale tergale; la fronte, in conci d’arenaria, è scandita dai due pilastri angolari e da quattro lesene, suddividendola in tre assi verticali, compositivamente gravitanti attorno a quello centrale, contraddistinto dal portale architravato con mensolette laterali, che immette nel passaggio rammentato. Al di sopra è l’oculo con il rosone, perimetrato da un arcone sestiacuto, a sua volta sormontato da un frontone triangolare. Negli assi laterali, al di sopra delle monofore e del cornicione, sono due iscrizioni su lapidi marmoree, anch’esse goticheggianti. Il riferimento stilistico non fu al grande Gotico d’Oltralpe (come accadrà, invece, nella ricostruzione della Trinity Church di via Lamarmora, ad opera di George Frederik Bodley nel 1892/1904, oppure nella chiesa di St. James, eretta da Riccardo Mazzanti e da Robert Carrère nel 1906/1911), ma alla tradizione trecentesca toscana e segnatamente fiorentina, nell’ambito di quella riscoperta del Tre e del Quattrocento che gli Angloamericani stavano allora facendo con ‘religiosa’ e stupefatta ammirazione.

Sul retro si estende il cimitero, disposto a ‘teatro’ classico nella cavea naturale della collina, con i vialetti radiali convergenti verso la colonna centrale, sormontata dalla croce. In alto è concluso da un portico perimetrale in mattoni, con pilastri ed archi in conci di pietra forte, imprimente, insieme ai numerosi cipressi, un’efficace connotazione cromatica all’insieme, decisamente ambientato in modo egregio nel dolce paesaggio agricolo circostante, così amato dagli stranieri del tempo, che proprio in quegli anni contribuivano all’invenzione della florentinitas e alla ridefinizione del suo landscape.

© Giampaolo Trotta, 2004
 


LA PIETRA E LA PAROLA

ELIZABETH BARRETT BROWNING A FIRENZE

CLAUDIA VITALE



 
Ich hörte sagen, es sei
im Wasser ein Stein und ein Kreis
und über dem Wasser ein Wort,
das den Kreis um den Stein legt

Paul Celan, 'Ich hörte sagen'


a definizione di “corpo spirituale” creata da Swedenborg e ben messa in risalto dalla dott.ssa Gaja nel suo intervento è un importante punto di partenza per avvicinarsi alla poetica elaborata da Elizabeth Barrett Browning in relazione a Firenze; una poetica “complessa” - come sottolinea attentamente Stephen Prickett - e che si incentra, a mio avviso, sull’idea di sintesi.

Il mio contributo vuol mettere in rilievo il motivo della fluida circolarità presente nella produzione di Elizabeth Barrett a Firenze, idea già anticipata dall’intervento della dott.ssa O’Brien in riferimento a quel “cerchio di interferenze” che viene a crearsi fra il monumento funebre e l’osservatore e, ancora, dalla dott.ssa Melosi con un significativo rimando all´epigrafe di Keats nella quale compare l’elemento dell’acqua.

Ho ricollegato quest’idea sia alla struttura architettonica del cimitero “degli Inglesi”, definita dal prof. Trotta, per mezzo di una bella metafora, “un’isola” nel cuore della città circondata dai “fiumi”dei viali di circonvallazione e caratterizzata fin dalla sua nascita dalla presenza dei cipressi, sia a quella interezza psicofisica che Elizabeth Barrett, come molte altre viaggiatrici straniere fra Ottocento e Novecento, tentò di raggiungere proprio con il viaggio in Italia riattualizzando concretamente la sua formazione classico-umanistica.

La circolarità si fa dunque sinonimo di proficuo dialogo fra il passato ed il presente, fra il marmo – la targa commemorativa- e la parola, primo importante passo verso una comunicazione fra la Firenze storica e quella attuale il cui significato interculturale, ben messo in risalto dall’assessore alle Relazioni Internazionali Eugenio Giani, diviene lo scopo primario del nostro convegno.

In una lettera del maggio 1854 Elizabeth Barrett definisce così la sua visione di Firenze rispetto a Roma: “Firenze ci sembra più bella che mai dopo Roma. Amo perfino le sue pietre, per non parlare dei cipressi e del fiume”.1  L’accento posto sulle pietre rimanda alla corporeità, alla fisicità che evidentemente la città trasmetteva ad Elizabeth; più dei dipinti, infatti, sembrano essere stati proprio i monumenti, le chiese, gli edifici stessi a parlare alla poetessa. L’archittetura, ed il marmo in particolare, sono al centro dell’attenzione della Barrett a Firenze, catturata soprattutto dal Duomo, capace, attraverso la sua mole, di farsi “concreta realizzazione della teologia”2 e perciò punto di incontro fra ideale neoplatonico e dimensione terrena. È esattamente alla luce di quest’idea di “passaggio” fra dimensioni diverse che va letta l’esperienza artistica fiorentina di Elizabeth Barrett, la quale nelle descrizioni della città, accanto alla pietra sempre menziona l’acqua, simbolo per eccellenza di eterna metamorfosi, di processualità creativa e metafora della stessa femminilità.3 La Firenze di Elizabeth Barrett va colta in questa “duplice visione”4, ineffabile e materiale ad un tempo5, espressione di un’antitesi fra spirito e carne che trova la sua conciliazione nella parola poetica. È nel “Novel-poem” Aurora Leigh del 1857 che Elizabeth Barrett rende esplicita questa sua poetica attraverso le parole della protagonista che esclama: “Tuttavia i poeti/ sarebbero in grado di esercitare una duplice visione;/ capaci di vedere le cose vicine, comprensibili come se avessero spostato più lontano il loro punto focale;/ E le cose lontane, tanto intimamente esplorate, come/ Se le toccassero”.6 Questo stesso principio si trova ripetuto in altra forma pochi versi dopo sempre per bocca di Aurora che definisce l’esperienza artistica un’opera di sintesi fra “essere” e “fare” perché il poeta sa porre “al vertice della sofferenza l’azione”. Dietro questa duplice prospettiva si nasconde lo stesso principio compositivo del romanzo in versi, definito da buona parte della critica, un Bildungsroman e ancor più un Künstlerroman perché dedicato alla formazione del soggetto artista, in questo caso, in termini tutti sovversivi rispetto alla tradizione vittoriana, una donna.8 La scelta di Elizabeth Barrett cade sul romanzo e non sul dramma, in quanto genere letterario che sa comunicare, creare un rapporto dialogico sia al suo interno, fra i personaggi - la stessa voce della protagonista tende a moltiplicarsi facendosi al contempo narratrice ed autrice - sia all’esterno, col lettore.9 Lungi dal voler mettere in scena un dicotomico mondo binario, in cui da un lato sta la terra di provenienza della madre di Aurora, l’Italia, una sorta di “matria” che protegge e consola e dall’altra l’Inghilterra, la terra del padre, perciò del raziocinio e dell’autorità10, Elizabeth Barrett tende invece ad un ritorno all’indistinto mondo originario rappresentato dagli elementi primitivi per eccellenza: la pietra e l’acqua. In tal modo la poetessa mira all’“incarnazione dello spirito”11, alla riconciliazione degli opposti, all’incontro del femminile col maschile ossia, in termini romantici, e più precisamente novalisiani, alla romanticizzazione12 del reale.

Nella sua descrizione di Firenze, accanto ai due motivi principali dell’acqua e del fiume13, Elizabeth Barrett fa spesso riferimento ai cipressi toscani, gli stessi che fanno da cornice alla sua tomba in marmo bianco su disegno di Lord Leighton nel cimitero “degli Inglesi” e gli stessi che D.H. Lawrence nella nota poesia Cypresses definirà molto più tardi “etruschi, misteriosi e monumentali”.14 Nel focalizzare l’attenzione sul paesaggio fiorentino, la poetessa fa sì che Firenze divenga sinonimo di “suolo”, come a dire che il vero e vivo patrimonio culturale ed artistico della città appare radicato nella sua stessa terra, nelle sue stesse pietre. In tal modo la “storia” della città si trasforma, in termini tutti romantici, in “storia della cultura”, storia di memorie, di uomini e donne, di corpi ed anime cosicché il confine fra la sfera fisica e quella spirituale si fa sottilissimo e la pietra, il fiume e la morte finiscono per confluire in uno stesso campo semantico: la morte si fa sinonimo di passaggio, momento di transizione fluido, perciò affidato alla memoria e alla poesia. La trama di questa tessitura coinvolge direttamente la tradizione letteraria fiorentina perché la pietra è prima di tutto il noto “sasso”15 di Dante, poeta amatissimo dai preraffaelliti e prima figura rivoluzionaria della storia artistica fiorentina.16 Nella pietra sembra riversarsi lo spirito stesso del genio poetico ed è infatti grazie ad essa che Elizabeth Barrett giunge a proclamare la fine dell’esilio di Dante.17

La potenza salvifica della pietra viene tradotta in poesia, dimensione utopica con cui è possible vincere la morte, riportare in vita i grandi del passato fino ad intrecciare più sensi e più arti, così si legge in Casa Guidi Windows del 1851: “E ora dicci cos’è l’Italia? Chiesero gli uomini/ e altri risposero, “Virgilio, Cicerone,/Catullo, Cesare” Cos’altro? Per richiedere alla memoria/ di farsi più vicina – “Boccaccio, Dante, Petrarca” –[…] “Michelangelo, Raffaello, Pergolesi”- tutti quelli i cui forti cuori battono nella pietra”.18

Attraverso la memoria, che è, come sostiene Mario Praz, il filtro che permette l’incontro dei sensi e perciò delle arti19, Elizabeth Barrett riporta in vita i grandi letterati della tradizione italiana e mette in relazione tempi e culture diverse: il periodo classico rappresentato da Virgilio, Cicerone, Catullo e Cesare, quello medievale dei letterati, quello rinascimentale dei pittori e degli architetti fino alla musica rappresentata dalla figura del maestro Pergolesi.

Da qui l’uso della targa commemorativa al fine di creare una nuova dimensione estetica che permetta una rinascita dell’io grazie alla forza della parola poetica.20 Interessante a tal proposito la poesia intitolata A Child’s Grave in Florence del 1849 scritta per commemorare la morte della giovane Alice di appena un anno, chiamata “Lily” nel testo, figlia della contessa Sofia Cottrell.21 La pietra diventa simbolo della terra stessa che accoglie, come madre, la bimba morta per fondersi con la storia della città, con il suo stesso emblema – il giglio- che a sua volta rimanda alla tradizione dei ghibellini, il cui colore era proprio il bianco, e a Dante.

La poesia viene dunque vissuta come luogo di passaggio, momento che permette l’intreccio di più sensazioni, spazio in perenne traduzione: la pietra si fa filtro vivo di memoria e parola. In un passo tratto da Casa Guidi Windows, Elizabeth Barrett fa nuovamente riferimento ai monumenti fiorentini, il cui valore sembra essere rappresentato dal dialogo che essi mettono in atto:

Nella Loggia? Dove è posto il Perseo del Cellini simile ad un Dio, di bronzo o d’oro (come chiamare il metallo, quando la statua lancia la sua anima fin dentro ai tuoi occhi?) 22
Il valore dialogico della scultura sta nel “lanciare” la propria anima fin dentro gli occhi dell’osservatore. In tal modo sembra realizzarsi una compenetrazione assoluta fra la statua, che possiede un’anima come fosse creatura viva, la parola poetica che funziona da tramite, e l’essere vivente che osserva.

L’esempio in cui tale fusione raggiunge l’apice è rappresentato dal sonetto del 1850 dedicato all’opera in marmo bianco dello scultore americano Hiram Powers23: The Greek Slave (1843)24  La poesia si fa concreta realizzazione di parola, marmo ed ideale perché qui la pietra, in quanto pars pro toto, è al contempo testo poetico, statua e corpo di donna.25

Quando Elizabeth Barrett vide l’opera per la prima volta nello studio di Hiram Powers a Firenze la definì un “tuono bianco” e la interpretò come appello alla libertà di contro alla schiavitù.26 Già poco prima, nel 1846, durante il suo viaggio di nozze a Pisa, incinta di cinque mesi, Elizabeth aveva scritto un “feroce”27  componimento contro lo sfruttamento degli schiavi, attaccando con particolare veemenza le violenze fisiche esercitate dai padroni sulle donne di colore, costrette spesso all’infanticidio: The Runaway Slave at Pilgrim’s Point.28 Qui l’effetto cromatico ha una valenza simbolica di grande rilievo; domina il nero, ripetuto come fosse un lamento all’inizio di molte strofe,29 per farsi grido nell’ultima parte del testo in contrasto con il bianco carnato del figlio ucciso e in riferimento alla morte definita “deep black” – “di un nero profondo”-.30

Il tema dell’oppressione e dello sfruttamento degli schiavi e delle donne è ancora una volta al centro del testo poetico dedicato all’opera di Powers, con la quale viene rappresentata una giovane donna greca catturata dai turchi e pronta per essere venduta al mercato degli schiavi. Se nella poesia del 1846 era il nero a dominare, in The Greek Slave è il bianco, il colore della luce e dell’ideale trasformato però da Elizabeth Barrett in un grido – il tuono-, un appello vivo di contro alle ingiustizie umane.31 Il bianco estetizzante, nell’arte figurativa ottocentesca associato agli ideali di purezza, di bellezza e di divinità32, viene rielaborato da Elizabeth Barrett con una lettura che definirei antropologica in quanto colore colto nella sua primitiva essenza, colore originario33, rimando alla stessa pagina bianca sulla quale è possibile “riscrivere” la storia.

L’atto rivoluzionario della poetessa sembra esplicarsi dunque nel ribaltamento dei concetti di “bellezza” e di “arte” non più interpretabili come ideali astratti e perciò estranei alla realtà, bensì come azioni tese alla lotta e alla trasformazione.34 Da qui l’uso di un’immagine tanto concreta come quella del “dito infuocato dell’arte” e della pietra che “colpisce” e “disonora” il potente. L’ideale si avvicina dunque alla realtà e al “tormento”, l’arte si fa azione viva e la parola pietra che si scaglia contro la schiavitù del mondo fino ad una vera e propria compenetrazione di più piani: l’arte e la politica, la carne e il marmo, l’ideale e il tormento, il colore e il suono, tanto che la poesia si materializza non solo agli occhi dell’osservatore quale statua ma anche all’udito dello stesso in quanto grido ed appello. Il valore del componimento poetico sta nel rendere visibile l’invisibile35, nel suo essere “in traduzione”, nello spazio dell’in-between come fosse una terza dimensione fra il marmo e la parola poetica stessa. È esattamente in questa “terza” dimensione che si colloca la potenzialità del testo che contiente già di per sé tutto: la parola, il suono e l’immagine.36

La sinestesia finale del “silenzio bianco” che pare essere usata in risposta all’esclamazione iniziale di “tuono bianco” allude ad un movimento circolare che dimostra la capacità performativa del testo, che inizia con la luce ed il suono per terminare con il buio ed il silenzio. Se infatti in tutto il testo pare essere il bianco il colore dominante, la chiusa espressa con enfasi dal solo participio “sconfitto” (“overthrown”), allude ad un’oscurità suggerita sia graficamente sia acusticamente dal suono chiuso e cupo della vocale “o”, a sua volta implicito riferimento alla circolarità della “O” di Giotto, simbolo di sintesi perfetta e perciò metafora di “fratellanza universale”.37

Nell’immagine sinestetica si può inoltre ravvisare un significato più indiretto riferito al silenzio subito dalla giovane poetessa sotto l’autorità paterna, perciò metafora del mutismo e del pallore a cui tutte le donne, in età vittoriana, erano costrette. Da qui la legittima interpretazione del testo come voce femminile che si erge contro il mondo patriarcale in una Firenze che può essere considerata il “luogo simbolo” di tale liberazione.38 Di contro alla poetessa fragile e malata sta infatti la donna politicamente attiva, l’infiammata patriota italiana che combattè per la causa risorgimentale e, in termini strettamente personali, contro un padre despota e una famiglia che da generazioni possedeva schiavi.39 Che il grido rivoluzionario venga innalzato per la liberazione degli schiavi e delle donne al fine di dar loro voce e importanza, è testimoniato da una nota lettera scritta in risposta ad una corrispondente:

[…] È possibile che tu ritenga che una donna non debba avere alcun impegno in problematiche come quella della schiavitù? Farebbe certo meglio a sottomettersi a questa e al concubinato come nell’antichità, a rinchiudersi in silenzio con Penelope nelle “stanze delle donne” senza prender posto fra pensatori ed oratori.40
In questo tipo di approccio dall’afflato estremamente moderno, Elizabeth Barrett fu profondamente influenzata dalla lettura dell’opera di Mme De Staël Corinne, ou l’Italie del 1807, che incise sulla raffigurazione dell’Italia in chiave romantica e ne elaborò il mito al femminile.41 Da qui l’attenzione dell’autrice anche per un’altra grande artista donna, scultrice di origine americana, che la poetessa frequentò sia a Firenze sia a Roma: Harriet Hosmer.42

L’artista americana aveva impressionato Elizabeth Barrett per la sua portata rivoluzionaria, per la sua emancipazione in un ambito artistico, quello della scultura, che al tempo, e almeno fino ai primi del Novecento, era destinato a rimanere predominio maschile.43 La scultura in particolare si carica inoltre agli occhi della poetessa, di una valenza ancor più concreta rispetto alla poesia o alla pittura perché arte corporea, perciò esplicito “richiamo all’azione”. Così si legge nell’ottavo libro di Aurora Leigh:

Sì, io un’artista
Difatti, signore, proprio questo sono: una donna e
Un’artista. E se qui ci fosse un’altra donna,
Le consiglierei: “piano sorella! Basta con le parole,
Parlando noi dimostriamo soltanto di saper parlare,
Cosa di cui nessun uomo ha mai dubitato.
Egli dubita invece che noi possiamo fare qualcosa
Con la stessa grazia […] Adesso coraggio: scolpisci
La tua statua, lo spazio, l’hai.44
Firenze diviene dunque per Elizabeth Barrett simbolo di una vera e propria “rinascenza” in quanto donna ed artista: il corpo della donna da sempre malata che pare ritornare a nuova vita proprio durante il soggiorno fiorentino e quello dell’artista che agisce attivamente.45 Da qui la scelta del personaggio di Aurora, il cui nome già di per se stesso è allusione alla rinascita e ancor più all’opera di Michelangelo (l’Aurora del 1524-27) presente nelle Cappelle di San Lorenzo a Firenze, simbolo della ribellione dell’artista alla tirannia medicea.46

L’amore per i classici, diverso da quello di Robert per lo più volto alla riscoperta del passato, venne vissuto dalla poetessa in termini umanistici, come insegnamento per il presente. Lo studioso Walter Savage Landor, anch’egli protagonista della storia fiorentina durante il soggiorno dei Browning47, fu caro amico di Elizabeth e, nel 1836, la definì “una perfetta allieva dei classici”,48 ed è certo sull’esempio della Grecia di Byron che presero vita gli ideali di libertà di Elizabeth, rielaborati e riattualizzati alla luce dei tumulti risorgimentali e in implicito riferimento alla condizione femminile del tempo. Anche per Ruskin, intimo amico di Elizabeth Barrett, grande ammiratore di Aurora Leigh49 e autore dell’opera coeva The stones of Venice (1851-53), l’arte rappresenta una forza attiva e viva, volta a spezzare le barriere che separano gli uomini, a creare fra loro un legame spirituale, una “fratellanza”.50

Tale ideale di conciliazione, che rimanda al concetto di circolarità di stampo classico, è riscontrabile nel motivo dell’anello, chiuso come un cerchio perfetto51, allusione alla stessa struttura architettonica del cimitero “degli inglesi”, vera isola nel cuore della città e implicito riferimento all’opera di Robert Browning The Ring and the Book, dedicata all’amata moglie. L’anello si fa dunque simbolo della connessione dell’arte con la vita, dell’unione del corpo con lo spirito, ma anche rimando all’amoroso e preziosissimo lavoro dei maestri fiorentini, in particolare a quei monili d’oro creati dai gioiellieri Castellani che i Browning ammirarono a Roma intorno al 1859 e che furono un esempio altissimo della cosiddetta “oreficeria archeologica italiana”.52 Ma “l’aureo anello” è soprattutto quello che unisce Italia ed Inghilterra e quello al quale fanno riferimento i versi di Niccolò Tommaseo incisi nella targa commemorativa posta sulla facciata di Casa Guidi, una targa in marmo nella quale si iscrivono la poesia ed il corpo di Elizabeth Barrett.53
 

NOTE

* I miei più sinceri ringraziamenti vanno al dott. Maurizio Bossi che mi ha dimostrato fiducia, accoglienza e comprensione, alla dott.ssa Katerine Gaja la quale, con la sua preparazione scientifica e la sua umanità mi ha guidato con pazienza nella ricerca confidando in me e alla prof.ssa Julia Bolton Holloway che mi ha gentilmente messo a disposizione la biblioteca del cimitero “degli Inglesi” offrendomi importanti indicazioni.
1 “Florence looks to us more beautiful than ever after Rome. I love the very stones of it, to say nothing of the cypresses and river”. The Letters of Elizabeth Barrett Browning, edited by Frederic G. Kenyon, The Macmillan Company, London, 1899, p.168.
2 “[The Duomo] struck me with a sense of the sublime in architecture […] It seemed to carry its theology out with it; it signified more than a mere building”. Cfr. Alison Chapman, “All that I have dreamed and more”: Elizabeth Barrett Browning’s Florence, in Journal of Anglo-Italian Studies, ed. by Peter Vassallo, vol. 6 (2001), p. 128.
3 Cfr. Katerine Gaja, Scrivendo nel marmo: lettere inedite fra Hiram Powers ed Elizabeth Barrett Browning, Antologia Vieusseux 25-26, 2003, p. 32. La studiosa, mettendo in relazione la poesia con la scultura, sottolinea l’importanza del fiume e dell’acqua stessa, sinonimo di metamorfosi e di impeto creativo.
4 Alison Chapman definisce così la visione di Barrett Browning rispetto a Firenze: “Florence is thus accessed in a problematical double vision which attemps a purchase on the city as a temporal, experiential reality, as material and tangible, and yet also as hallucinatory, ineffable, unrepresentable”. Alison Chapman, op. cit., p. 131.
5 Interessante un parallelo con la descrizione di Firenze offerta da Sophia Peanody Hawthorne nelle sue Notes in Italy: “It was not possible to tell where the immaterial city began and the material city ended”. Cfr. il sito del cimitero “degli inglesi” alla pagina: http://www.florin.ms/mshawthorne.html
6 “But poets should/Exert a double vision; should have eyes/ To see near things as comprehensively/As if afar they took their point of sight,/And distant things s intimately deep/As if they touched them”. Elizabeth Barrett Browning, Aurora Leigh and other Poems, edited by John Robert Glorney Bolton e Julia Bolton Holloway, Penguin, 1995, p. 143-144.
7 “While Art sets action on the top of suffering:/The artist’s part is both to be and do […]”. Elizabeth Barrett Browning, Aurora Leigh and other Poems, edited by John Robert Glorney Bolton e Julia Bolton Holloway, Penguin, 1995, p. 148.
8 Elizabeth Barrett Browning, edited by Simon Avery and Rebecca Scott, Longman, 2003, p. 182.
9 “The multiplicity of the voices that Aurora Leigh’s text incorporates, and increasing self-consciousness it registers as a “Text-in-process” generates the double-voiced discourse representing not only a text-in-process, but a subjectivity-in-process as well, which is, in other words, the dialogic fomation of subjectivity”. Sarolta Marinovich-Resch, The dialogue of the Public and the Private Voice in “Aurora Leigh”, in:  Sabine Coelsch-Foisner/Holger Klein (eds), Private and Public Voices in Victorian Poetry, Stauffenburg Verlag, Tübingen, 2000, pp. 166.
10 “The conflict embodied in the Aurora (art/spirit) versus Romney (socialism/body) binary is revealed to be a false one as spirit and body come to ‘correspond’, working together towards reform in the name of love”. Simon Avery e Rebecca Scott, op. cit., p. 189.
11 Per capire l’importanza attribuita al legame fra spirito e corpo basti leggere i seguenti versi: “[…] For otherwise we only imprison spirit,/ And not embody.  Inward evermore/ To outward, - so in life, and so in art,/ Which still is life”. E. Barrett Browning, Aurora Leigh and other Poems, cit., p. 144.
12 Sottintesa qui la traduzione letterale del principio romantico del “romantisieren” definitivo da Novalis un “potenziamento qualitativo dell’esistenza”. Cfr. Novalis, Schriften, in: Das Philosophische Werk, vol. II, Stuttgart, 1981, p. 545.
13 Si ricordi il bel passo tratto da Casa Guidi Windows in cui Elizabeth mette esplicitamente in relazione l’immagine del fiume con il marmo: “I can but muse in hope upon this shore/Of golden Arno as it shoots away/Straight through the heart of Florence, ‘neath the four/Bent bridges, seeming to strain off like bows,/And tremble, while the arrowy undertid/Shoots on and cleaves the marble as it goes,/And strikes up palace-walls on either side,/And froths the cornice out in glittering rows […]”(“Non posso che meditare su questa sponda/dell’Arno dorato mentre saetta/tagliando il cuore di Firenze, sotto i quattro/curvi ponti, che come archi paiono tendersi,/e sussultano, mentre la corrente, come freccia/continua a saettare, a e fendere, scorrendo il marmo,/E batte contro i muri dei palazzi su ambedue le sponde,/e di spuma copre i cunei sporgenti (trad. it. di Assunta D’Aloi). EBB, Casa Guidi Windows, cit., p. 270.
14 “Tuscan cypresses,/What is it?//Folded in like a dark thought/For which the language is lost,/Tuscan cypresses,/Is there a great secret?/Are our words no good?/The undeliverable,/Dead with a dead race and a dead speech, and yet/Darkly monumental in you/Etruscan cypresses […]”. Lawrence intraprese il suo “viaggio nella terra degli Etruschi” insieme all’amico americano Earl Brewster intorno al 1927. Cfr. The Norton Anthology of English Literature, Fifth Edition, Vol. II, W.W. Norton & Company, New York, 1986, p. 2159. L’importanza attribuita ai cipressi è segnalata da Elizabeth Barrett Browning anche in una lettera indirizzata a John Ruskin del 17.03.1855: “But among the advantages of our Florence: - The art, the olives, the sunshine, the cypresses, and don’t let me forget the Arno and mountains at sunset time – […] ”. Cfr. The Letters of Elizabeth Barrett Browning, vol. II, op. cit., p. 191.
15 “And touch the holy stone where Dante sate” (Poems before the Congress, 1860); “On the stone/ Called Dante’s, - a plain flat stone scarced /Discerned/From others in the pavement, -whereupon/He used to bring his quiet chair out, turned /To Brunelleschi’s church, and pour alone/The lava of spirit when it burned”. (Casa Guidi Windows, Part I, 1851). Quest’ultima citazione è un’esplicita anticipazione del verso contenuto in Aurora Leigh usato per definire la stessa poetica della protagonista: “The burning lava of a song”.
16 Cfr. Graham Smith, The Stone of Dante and later Florentine celebrations of the Poet, Olschki, Firenze, 1990. Si ricordi che Ruskin nell’opera The Stones of Venice lo definì “the central man of all the world”.
17 “For now thou art no longer exiled, now/Best honoured: we salute thee who art come/Back to the old stone”. E. Barrett Browning, Casa Guidi Windows, cit., p. 269
18 “Now tell us what is Italy?” men ask:/And others answer, “Virgil, Cicero,/Catullus, Caesar” What beside? To task the memory closer – “Why Boccaccio, /Dante, Petrarca,” – “Angelo, Raffael, Pergolesi”- all/Whose strong hearts beat through stone”. E. Barrett Browning, Casa Guidi Windows, Part I, in: The complete Works of Elizabeth Barrett Browning, vol. II, p. 255.
19 Cfr. Mario, Praz, Mnemosine. Parallelo tra la letteratura e le arti visive, Mondadori, 1971, p.64: “Può sembrarci sulla buona strada Antonio Russi che in L’arte e le arti, dopo aver constatato che “nell’esperienza normale in ogni senso sono contenuti, attraverso la memoria, tutti gli altri sensi” applica codesta formula all’esperienza estetica col dire che in essa “in ogni arte sono contenute, attraverso la memoria, tutte le altre arti”.
20 Il termine “rebirth” rimanda alla poetica stessa di Robert Browning ma va considerato in un’accezione diversa in riferimento ad Elizabeth perché più terrena e più vitale: “‘The virtue of resuscitation’ so strongly impressed him that it became an element of his poetic theory. The urge to redeem the past, already visible in the poems he had written on historical subjects, was confirmed by the spectacle of what was happening to the frescoes of Florence […] His explanation of his methods in The Ring and the Book identifies poetry itself as an act of ‘resuscitation’”. Cfr. Jacob Korg, Browning and Italy, op. cit., p. 106.
21 La targa è posta all’ingresso del cimitero “degli inglesi”:“And here among the English Tombs/In Tuscan ground we lay her,//A Tuscan Lily, - only white,/As Dante, in abhorrence/Of red corruption, wished aright/The lilies of his Florence”. The Complete Works of Elizabeth Barrett Browning, vol. III, op. cit., p. 219.
22 “In the Loggia? Where is set Cellini’s goldlike Perseus, bronze or gold/(how name the metal, when the statue flings its soul so in your eyes?)”. Elizabeth Barrett Browning, Casa Guidi Windows, in: The complete Works of Elizabeth Barrett Browning, cit., vol. III, vv. 581 e segg., p. 268.
23 Significativo il fatto che i rapporti più solidi stretti a Firenze riguardassero proprio il mondo della scultura e in particolare gli scultori americani Hiram Powers, giunto a Firenze nel 1837, William Wetmore Story, amico intimo di Robert per più di quaranta anni - arrivò nel capoluogo toscano nel 1848-, e Joel T. Hart (1810-1877) sepolto al cimitero “degli inglesi”.
24 “They say Ideal Beauty cannot enter/The house of anguish. On the threshold stands/An alien Image with enshackled hands,/Called the Greek Slave: as if the sculptor meant her,/(That passionless perfection which he lent her,/Shadowed, not darkened, where the sill expands)/To so, confront man’s crimes in different lands,/With man’s ideal sense. Pierce to the centre,/Art’s fiery finger! – and break up ere long/The serfdom of this world! Appeal, fair stone,/From God’s pure heights of beauty, against man’s wrong!/Catch up in thy divine face, not alone/East griefs but west, - and strike and shame the strong/By thunder of white silence, overthrown”. The Complete Works of Elizabeth Barrett Browning, cit., vol. III, p. 178 (“Dicono che la bellezza ideale non possa entrare/ la casa del tormento. Sulla soglia sta/ una figura estranea con mani incatenate,/chiamata La Schiava Greca! Come se l’artista l’avesse interpretata (quella perfezione priva di passione che le ha conferito,/ombreggiata ma non oscurata laddove la soglia si schiude)/per mettere a confronto i crimini dell’uomo nei diversi paesi/Con il senso ideale dell’essere umano. Tocca il centro,/dito infuocato dell’arte, e frantuma/la schiavitù di questo mondo. Fai appello, bella pietra,/dalle pure alture divine alla bellezza, contro il male dell’uomo!/Arresta nel tuo volto divino,/ i dolori dell’oriente e dell’occidente, colpisci e disonora il potente/con tuoni di bianco silenzio,/sconfitto”, trad. mia).
25 Del resto Powers fu il primo scultore a rappresentare, in modo tanto realista, la pelle umana nel marmo e fu questo uno dei motivi per cui la statua suscitò tanta ammirazione Hiram Powers. Vermont Sculptor 1805-1873, a cura di Richard P.Wunder, vol. I, London and Toronto, 1991, p. 109.
26 Cfr. Julia Markus, Dared and Done. The Marriage of Elizabeth and Robert Browning, Bloomsbury, 1995, pp. 196-197.
27 Così lo definisce Barrett Browning stessa in una lettera del 21 dicembre 1846 indirizzata a Hugh Stuart Boyd: “I am just sending off an antislavery poem for America, too ferocious, perhaps, for the Americans to publish”. Victorian Poetry as Cultural Critique. The Politics of Performative Language, ed. By E. Warwick Slinn, University of Virginia Press, London, 2003, p.62.
28 Ibidem.
29 “We were black, we were black!” (Strofa XIV), “”I am black, I am black!” (Strofa XVI), “I am not mad: I am black!” (Strofa XXXII). E. Barrett Browning, Aurora Leigh and other Poems, cit., pp. 365-374.
30 “[…] In the name of the white child waiting for me/In the deep black death where our kisses agree,-/White men, I leave you all curse-free/In my broken heart’s disdain!”. Elizabeth Barrett Browning, Aurora Leigh and other poems, cit., p. 374.
31 “Il bianco è collegato all’ideale, ma è anche il colore del dolore; colpisce la metafora adoperata per definire l’effetto della morte del fratello, della quale non poteva parlare: l’aveva resa «bianca d’anima». Cfr. Katerine Gaja, “Scrivendo nel marmo”, cit., p. 35.
32 Alberto Castoldi, Bianco, La Nuova Italia, p. 58
33 Ivi, p. 1. Gli antropologi nel delineare una progressione cronologica dell’acquisizione dei colori in ambito linguistico sostengono che il primo colore è appunto il bianco. Interessante il fatto che per la tradizione ebraica, alla quale -come ben mette in rilievo anche Stephen Prickett nel suo intervento - Elizabeth era molto vicina, il colore del lutto fosse appunto il bianco. Ringrazio la prof.ssa Ida Zatelli per questa preziosa indicazione.
34 In questa sua posizione Elizabeth Barrett pare allontanarsi anche dalla visione di Hiram Powers stesso, il quale in una lettera del 1853 definisce il bianco radioso della scultura antica ripulita dissociandola dalla realtà e rendendola tanto pura e bella da far sì che essa sembri corrispondere alle teorie platoniche delle ideee filosofiche. Per la poetessa invece l’ideale non pare poter esistere senza il tormento ed è esattamente nella tensione di tali opposti che si ha progressione e trasformazione. Cfr. K. Gaja, “Scrivendo nel marmo”, cit., p. 38.
35 Questa formula ricorda i versi di Robert Browning tratti dall’opera Old Pictures in Florence: To cries of  “Greek Art and what more wish you?”-/Replied: “To become more self-acquainters,/And paint man, man, whatever the issue![…]/To bring the invisible full into play!/Let the visible go to the dogs – what/matters?”, Robert Browning, Old Pictures in Florence, Giulio Giannini & Son, Florence, 1923, sezione XIX.
36 Cfr. Michael Eggers, Texte, die alles sagen. Erzählende Literatur des 18. und 19. Jahrhunderts und Theorie der Stimme, Königshausen & Neumann, 2003.
37 La struttura del cerchio rimanda sia alla stessa struttura architettonica del cimitero degli “Inglesi”, vera e propria isola nel cuore della città, sia all’elemento dell’anello. Si pensi a tal proposito al titolo dell’opera di Browning The Ring and The Book.
38 “Quello che risulta interessante sul piano delle scelte stilistiche del componimento è l’iconografia della donna-schiava creata dalle mani dello scultore-Dio: la statua della schiava greca diventa simbolo da un lato di perfezione ideale e di eterna bellezza femminile, e dall’altro di secolare asservimento al mondo patriarcale occidentale.” Cfr. Elizabeth Barrett Browning e il percorso verso la rinascita della donna artista, tesi di laurea di Sheila Frodella, A.A., 2000-2001, Università di Firenze, Dip. Di Filologia Moderna, p. 91.
39 Cfr. The Family of the Barrett. A Colonial Romance, The Macmillan Company, New York, 1938. Il nonno paterno, Samuel Barrett, (muore nel 1760) era considerato uno dei più grandi proprietari terrieri della Giamaica.
40 “[…] Is it possible that you think a woman has no business with questions like the question of slavery? She had better subside into slavery and concubinage herself, I think, as in the times of old, shut herself up with the Penelopes in the “women’s apartment”, and take no rank among thinkers and speakers”. Elizabeth Barrett Browning, ed. by Simon Avery and Rebecca Scott, cit., p. 111.
41 Cfr. Maddalena Pennacchia Punzi, Il mito di Corinne. Viaggio in Italia e genio femminile in Anna Jameson, Margaret Fuller e George Eliot, Carocci, 2001.
42 A Roma Elizabeth Barrett Browning conobbe molti altri artisti sia inglesi sia americani, fra questi: John Gibson, Thomas Crawford e il pittore William Page ma solo Harriet era destinata a diventare “a great pet” della poetessa. Cfr. The Life of Elizabeth Barrett Browning, edited by Gardner B. Taplin, ARCHON BOOKS, 1970, p.277.
43 La stessa problematica si ravvisa anche fra le artiste tedesche che giunsero a Firenze nel fine secolo. Cfr. gli atti del convegno Cultura tedesca a Firenze: scrittrici ed artiste fra Otto- e Novecento, a cura di Maria Chiara Mocali e Claudia Vitale (in corso di stampa per Le Lettere, Firenze).
44 “I, an artist, - yes,/Because, precisely, I’m an artist, sir,/And woman, - if another sate in sight,/I’d whisper, - Soft, my sister! Not a word!/By speaking we prove only we can speak;/Which he, the man here, never doubted. What/He doubts, is whether we can do the thing/With decent grace, we’ve not yet done at all:/Now, do it; bring your statue, - you have room!”. Elizabeth Barrett Browning, Aurora Leigh, cit., p. 269. Il riferimento allo “spazio” (“room”) nel verso finale richiama alla mente l’opera di Virginia Woolf  A Room of One’s Own, rimando che non mi pare casuale se si pensa che la Woolf apprezzò molto Barrett Browning e che il suo commento ad Aurora Leigh si incentra proprio su una metafora nella quale la letteratura femminile appare come una “realtà mancata”, il cui unico “spazio” accessibile pare essere “la stanza degli sguatteri”.Cfr. Elizabeth Barrett Browning, edited by Simon Avery and Rebecca Scott, cit. p.11. Anche Emily Dickinson mette in risalto l’importanza di Elizabeth Barett per la letteratura femminile e, in una delle tre poesie a lei dedicate, giunge ad affermare che la morte della poetessa inglese coinciderebbe con la fine della poesia stessa. Ivi, p. 10.
45 Cfr. Unfolding the South. Nineteenth-century British women writers and artists in Italy, edited by Alison Chapman and Jane Stabler, Manchester University Press, 2003.
46 Nel 1513 Leone X affidò a Michelangelo l’esecuzione della Sacrestia Nuova di San Lorenzo e delle tombe medicee sulle cui pareti M. realizzò il Giorno e la Notte, il Crepuscolo e l’Aurora. Elizabeth Barrett Browning, edited by Simon Avery and Rebecca Scott, cit., p. 164.
47 Le stesse opere di Landor, passate alla storia per la loro forma rigorosamente classica, sono state spesso definite anche “marble-like”. Cfr. The Norton Anthology of English Literature, cit., p. 902.
48 “An excellent Greek scholar”. Cfr. The Family of the Barrett, cit., p.432.
49 Elizabeth Barrett Browning, edited by Simon Avery and Rebecca Scot, cit., p. 8. La scrittrice conobbe Ruskin intorno al 1848 e mantenne con lui una fitta corrispondenza che andò crescendo negli anni e durò fino al 1859. Intorno al 1860 Ruskin subì una profonda crisi spirituale che lo isolò dalla cerchia di amici e conoscenti ma non dalla poetessa, alla quale egli confidò i suoi più intimi turbamenti: “Sto combattendo contro tutti i possibili dubbi e stranezze: sono privo di forze – non riesco a guardare le cose in faccia”.
50 “The dark stones that have so long been the sepulchres of the thoughts of nations, and the forgotten ruins wherein their faith lay charnelled, give up the dead that were in them […] the multitudinous souls come forth with singing, gazing on us with the soft eyes of newly comprehended sympathy and stretching their white arms to us across the grave, in the solemn gladness of everlasting brotherhood”. J. Ruskin, The stones of Venice, pagine scelte ed annotate con studio introduttivo di Dario Gazzoni-Pisani, Roma, 1975, p. 129.
51 Thomas Mann ci offre una bella definizione del significato del cerchio nel romanzo Le storie di Giacobbe: “La natura misteriosa dell’origine si fonda sul fatto che la sua essenza non è la linea ma la sfera. La linea non ha misteri. Il mistero inerisce alla sfera. Ma la sfera consiste di corrispondenze e complementarietà: due metà che vanno a formare un tutto unico”.T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, a cura di Fabrizio Cambi, Mondadori, 2000, vol. I, p. 219.
52 “Archaeological jewellery”. Cfr. Geoffrey C. Munn, Castellani and Giuliano, Revivalist Jewellers of the 19th Century, Rizzoli, New York, 1984, p. 14.  Forse proprio in questa relazione fra il passato e le cose appartenenti al presente sta l’interesse di Rainer Maria Rilke per l’opera di Elizabeth Barrett della quale tradusse in tedesco I Sonetti al Portoghese. La “poetica delle cose” di Rilke coinciderebbe con quella di Elizabeth che guarda all’incarnazione dello spirito del passato nella realtà del presente.
53 Cfr. Alison Chapman, Risorgimenti:spiritualism, politics and Elizabeth Barrett Browning, in: Unfolding the South. Nineteenth-century British women writers and artists in Italy, edited by Alison Chapman and Jane Stabler, cit., p. 89.
 

 


UNA TOMBA DAL NOME SVANITO: ISA BLAGDEN

CORINNA GESTRI


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                                                                           Isa Blagden, ritratto posseduto da Lilian White, riprodotto in Jeanette Marks,
                                                                           The Family of the Barrett, 1938. Anche il ritratto di lei quasi indistinto.

ISABELLA BLAGDEN/ ENGLAND?/ +/135. Blagden/ Isabella/ Tommaso/ Svizzera/ Firenze/ 20 Gennaio/ 1873/ Anni 55/ 1194/ Isabelle Blagden, l'Angleterre, fille de Thomas/ GL23777/1 N°447, Burial 28/01, Rev. Tottenham/ Thomas Adolphus Trollope, What I Remember, II.173-175 / ISABELLA [Cross on Flower Garland] BLAGDEN/ BORN 1816 DIED . . . 1873/ . . . WILL BE DONE . . ./F11C

ISABELLA BLAGDEN (1818-1873). E' sepolto vicino alle amiche E. Browning e T. Trollope: l'amore per la libertà e un appassionata partecipazione alle vicende del Risorgimento italiano cementarono quest'amicizia fra scrittrici ospiti di Firenze. Isa Blagden, inglese originaria delle Indie Orientali, s'era stabilita nel 1843 sulla collina di Bellosguardo; poetessa e narratrice di larga vena, affidò per il suo ricordo a quelle qualità umane che la fecero delicata soccorritrice di R. Lytton (il poeta Owen Meredith ospite paziente del vecchio bizzarro S. Landor, osservatrice attenta della cultura toscana del tempo. Misticismo esotico e romanticismo narrativo si mescolano nella sua produzione letteraria, ormai quasi cancellata, come la scritta sulla sua tomba (n. 1175). Eppure resta viva, forte e appassionata personalità di donna fedele al dono più prezioso: l'amicizia. L.S.



 
1
O'er the old tower, like red flame curled
Which leapeth sudden to the sky
Its emblem hues all wide unfurled
Upsprings the flag of Italy
2
Its emblem hues! the brave blood shed
The true life blood by heroes given,
The green palms of the martyred dead,
The snowy robes they wear in Heaven.
. . . 
7
My Florence, which so fair doth be
A dream of beauty at my feet
While smiles above that dappled sky
While glows around that rip'ning wheat
8
As fair, as peaceful and as bright
Art thou as she we hear came down
From Heaven in bridal robes of light
Thy new Jerusalem St. John!

Isa Blagden

l fenomeno della “colonizzazione” da parte di numerosi angloamericani di Firenze intorno alla metà dell’ottocento è ben noto e più volte studiato. Ma consultando le autobiografie, le memorie e le lettere degli “anglofiorentini”, non si può fare a meno di notare il nome di Isabella Blagden, ovunque menzionato. Questa donna sembra essere stata l’amica di tutti, il punto in comune fra personalità diversissime tra loro; occupava insomma una posizione eccentrica, di cerniera. Ma oggi Isa Blagden, autrice di romanzi e poesie e figura centrale nell’ambiente della colonia angloamericana a Firenze, è relegata a una posizione di margine, anzi è quasi completamente dimenticata dalla storia della letteratura inglese, è come scomparsa dopo un breve periodo di notorietà.

Eppure, oltre a essere l’epicentro riconosciuto della colonia anglofiorentina, la sua esperienza è fondamentale anche per capire il rapporto della donna con la difficile realtà sociale del suo periodo storico. Soggetto dalle innumerevoli contraddizioni, dalle identità multiple, un sé indefinibile, non identificabile per assoluti, ha certamente il diritto di salire sulla scena pubblica.

Isa Blagden è brevemente ricordata nel Modern English Biography, che elenca le sue opere, presentandocela però soprattutto come “amica” di autrici ritenute più importanti di lei quali Elizabeth Barrett Browning e Theodosia Trollope. L’aver conosciuto e l’essere stata la confidente di personalità tutt’oggi ritenute tra le più significative del secolo diciannovesimo è stato al contempo la fortuna e la sfortuna di Blagden. Ha infatti ottenuto una sorta di immortalità indiretta nel ricordo dei posteri: era l’amica di Elizabeth Barrett Browning, con la quale condivideva le idee politiche e la passione per le pratiche spiritiche; era la confidente dello sconsolato Robert Browning, che dopo essere ritornato in Inghilterra in seguito alla morte della moglie mantenne con Isabella un rapporto epistolare conclusosi solo con la scomparsa della scrittrice.

Sebbene Blagden “viva” soprattutto all’ombra dei Browning, essa viene ricordata anche nelle opere che trattano di altri scrittori o scrittrici che abitarono o solo visitarono il capoluogo toscano, visto che era improbabile per gli artisti angloamericani soggiornare a Firenze senza conoscere e rimanere affascinati da questa donna dall’animo gentile, che riceveva i suoi numerosi ospiti nelle ville di Bellosguardo. Ma questo suo aspetto di “amica universale” ha messo in ombra altri lati della sua personalità, e soprattutto il fatto che non solo amava circondarsi di artisti e letterati, ma che era essa stessa scrittrice. Romanziera e poetessa, viene abbandonata dopo aver affermato che era autrice mediocre e poco originale, poiché scriveva seguendo i canoni vittoriani. Di lei si recupera la personalità, tanto affascinante da attrarre intorno a sé gli artisti più importanti del periodo, trascurando le opere. Si dimentica che i romanzi e le poesie di Blagden sono l’unica fonte diretta da cui traspare l’identità dell’autrice e grazie alla penna riusciva a condurre una vita assai agiata, seppur nell’“economica” Bellosguardo.

La caratteristica più singolare di Isabella Blagden è la scarsità di informazioni che si hanno sulla sua vita, in particolar modo per il periodo che va dalla sua nascita alla scelta di stabilirsi in Italia. La scrittrice non ha lasciato né autobiografie né diari, e anche nelle opere autobiografiche dei suoi amici più intimi non vi sono informazioni su di lei risalienti al periodo antecedente al 1849. Fra l’altro, la maggior parte delle lettere che ella scriveva regolarmente ai suoi numerosi amici sono andate perdute.

In mancanza di materiale diretto, le fonti fondamentali per avere notizie biografiche riguardanti Blagden sono l’introduzione al suo volume di versi dovuta al poeta laureato Alfred Austin, conosciuto da Blagden a Firenze nel 1865, e le lettere spedite mensilmente dal caro amico Robert Browning, conservate da Isa con cura e fortunatamente giunte fino a noi.

Le origini di Blagden appaiono avvolte nel più fitto mistero. Sebbene sia circondata da una folta schiera di amici, non vi è traccia di alcun legame familiare. Non sappiamo neppure con esattezza la data della sua nascita. Il registro del cimitero degli inglesi di Firenze, dove la scrittrice è sepolta, afferma che il nome del padre era Thomas e che Isa morì il 23 gennaio del 1873 a cinquantacinque anni. Tuttavia le date sulla sua tomba sono 1816–1873. In What I Remember Thomas Adolphus Trollope, nato nel 1810, ci dice che Blagden era molto più giovane di lui1 e ciò potrebbe far pensare al 1818, ma questa, naturalmente, è solo una supposizione, tanto più che i critici a tal proposito si dividono.2

Nathaniel Hawthorne nel suo The Marble Faun,3 parlando di una delle protagoniste del romanzo, ha scritto parole che si adattano perfettamente alla situazione di Blagden, con l’unica differenza che l’eroina di Hawthorne è pittrice, anziché scrittrice. Parla di una certa “ambiguità”, che non implicava necessariamente niente di sbagliato; nessuno sapeva niente di lei, aveva fatto la sua apparizione senza introduzione.

Le origini di Blagden dovevano essere ignote anche a molti (se non tutti) suoi amici. Correva voce che le scorresse nelle vene sangue indiano. Lilian Whiting4 afferma che essa era la figlia di un gentiluomo inglese e una principessa Hindu. Le origini indiane di Blagden sembrano essere confermate dalle descrizioni fisiche che di lei riportano i suoi contemporanei. Kate Field e Margaret Jackson5 parlano di una donna di piccola statura, con occhi e capelli neri e carnagione olivastra; Henry James, che la conobbe brevemente durante uno dei suoi primi viaggi a Firenze, ricorda una sua passeggiata mattutina dal centro della città a Bellosguardo durante la quale parla con una piccola ed energica signora con occhi scuri e dall’aspetto vagamente indiano.6

E’ degno di nota il fatto che una donna come Isabella Blagden, il cui passato è avvolto nel mistero, abbia scelto come patria di adozione l’Italia, ed in particolar modo la tollerante Firenze, universalmente nota anche per il suo accogliere gli ospiti più “stravaganti”.

I viaggi che significavano lunghi soggiorni fornivano l’opportunità di assumere atteggiamenti e ruoli che a casa sarebbero stati proibiti o impossibili. L’Italia era il luogo delle possibilità, il luogo dell’eccesso dove un altro io viveva la vita. L’Italia era il luogo dove l’amore tra Elizabeth e Robert Browning era possibile, dove persone altrove definite eccentriche venivano ricercate e stimate; si pensi a Walter Savage Landor, di cui sono leggendari gli scoppi di collera o Seymour Kirkup, pittore e collezionista d’arte, fanatico sostenitore dello spiritismo e conosciuto tra i connazionali come lo “stregone”.

L’Italia, dunque, veniva a significare il luogo delle possibilità per le donne: allentate le maglie dell’identità, potevano vivere più liberamente secondo i propri desideri. Ecco allora che artiste come Harriet Hosmer, Louisa Lander, entrambe scultrici, Charlotte Cushmann, attrice, o anche donne immaginarie come Agnes Tremorne, protagonista dell’omonimo romanzo di Isa Blagden, ambientato a Roma, potevano permettersi di girare per le città da sole senza protezione maschile, ritenuta quasi “obbligatoria” nella madrepatria.

Viene da domandarsi poi, se Isa Blagden, donna non sposata che viveva da sola o condividendo la villa del momento con altre donne nubili, sarebbe stata egualmente da tutti ricordata ed elogiata se avesse intrattenuto i suoi ospiti in qualche salotto vittoriano invece che sulla terrazza di villa Brichieri-Colombi. In Italia Isa poteva permettersi di non rilevare le sue origini e di scegliersi così l’identità che preferiva.

La vita fiorentina di Blagden iniziò, come testimonia Alfred Austin,7 nell’introduzione alle poesie di Blagden apparse postume nel 1873, nel 1849 e in questa città rimase fino alla morte, anche se, seguendo le abitudini degli angloamericani, trascorse lunghi periodi in altri parti d’Italia o all’estero. La città toscana si trasformò per lei in patria d’adozione, divenne il luogo fisso dove fare ritorno alla fine di ogni viaggio. Sebbene all’inizio del suo soggiorno Blagden occupasse Villa Moutier, un’abitazione vicino a Poggio Imperiale, a circa un chilometro di distanza da Porta Romana, la scrittrice si innamorò di un luogo particolare di Firenze: quella località situata sulla riva sinistra dell’Arno denominata Bellosguardo, che divenne nel corso dell’Ottocento una sorta di “isola” angloamericana. Se Bellosguardo ebbe mai una regina, questa fu sicuramente Isabella Blagden, che trascorse gran parte dei suoi ventiquattro anni italiani su questa collina, cambiando più volte dimora, ma scegliendo sempre ville che si trovavano a pochi passi l’una dall’altra e addirittura invitando i suoi amici più cari (come Austin e gli Hawthorne) a seguire il suo esempio e a stabilirsi sul “colle delle grazie”.8 Non a caso Kate Field, in un articolo intitolato English Authors in Florence, non chiama Blagden col suo nome e preferisce definirla “our Lady of Bellosguardo”. Field era consapevole che qualsiasi angloamericano che fosse anche solo passato per Firenze, avrebbe riconosciuto nella “little lady with blue black hair and sparkling jet eyes”9 la scrittrice inglese.

Tre sono le ville di Bellosguardo maggiormente associate con Blagden: villa Brichieri-Colombi, villa Giglioni, e villa Castellani, sebbene essa abbia abitato brevemente in un altro edificio situato sul colle, la villa Isetta.

Da Alta Macadam, Americans in Florence: A Complete Guide to the City and Places Associated with Americans Past and Present, Firenze: Giunti, 2003. In alto a sinistra, Villa Brichieri-Colombi.

Come ho già detto, da un punto di vista economico la scrittrice aveva non poche difficoltà: disponeva di mezzi modesti e si guadagnava da vivere soprattutto grazie alla scrittura. Una delle ragioni per cui elle visse così a lungo a Bellosgurado è appunto la relativa conomicità del luogo rispetto ad altre zone di Firenze. La povertà e quindi la necessità di alleggerire le spese domestiche, era anche la giustificazione che Blangen indicava per condividere l’appartamento con altre donne. Nel corso del 1860 Blagden divise villa Brichieri –Colombi con Frances Power Cobbe, che illustrò nella sua autobiografia il lato finanziario della vita a Bellosguardo.

Cobbe non è l’unica persona con cui Blagden ha condiviso l’appartamento, quella di dividere le spese con un’altra donna era una vera e propria consuetudine per la scrittrice. Tra quest’ultima e le sue “ospiti paganti” si veniva a creare un rapporto basato su una profonda amicizia, la quale durava ben oltre il periodo di convivenza.

In tutti i romanzi di Blagden l’amicizia, la solidarietà e la convivenza tra donne è esaltata in continuazione. Alla luce di ciò che la scrittrice propone nei suoi testi, la sua posizione di donna nubile che condivideva le sue abitudini con varie amiche assume tutta l’importanza di una decisione autonoma che in qualche modo si contrapponeva alle regole della società, secondo le quali ogni “zitella” era infelice a causa del suo stato civile, dovuto a cause di forza maggiore e non ad una libera scelta.

Blagden divise i suoi appartamenti sia con letterate e artiste, i cui nomi sono ancora conosciuti e apprezzati, sia con donne che non si dedicavano all’arte, oggi del tutto dimenticate. Dalla corrispondenza tra Elizabeth Barrett Browning e Blagden si deduce che intorno alla metà del secolo l’autrice di Agnes Tremorne condivideva l’appartamento con una certa Miss Agassiz. Se ne ha conferma da una lettera datata 1850 circa in cui la poetessa invita Blagden e Agassiz a casa Guidi, e da un’altra del maggio del 1851, in cui Browning chiede notizie sulla salute di Agassiz.10 Nel 1852, di ritorno da una visita in Inghilterra, Blagden portò con se Louisa Alexander, una donna invalida di cui la scrittrice si prese cura e che visse con lei fino al giugno del 1855, quando Alexander partì per l’India. Blagden instaurò un rapporto di grande amicizia con questa donna e la sua morte, avvenuta nel 1858, la rattristò molto. Sia Elizabeth sia Robert Browning, che quell’inverno risiedevano a Parigi, le scrissero lunghe lettere di consolazione, consapevoli del dolore che questa perdita aveva provocato.11

In data 27 giugno 1858, Hawthorne ci parla nel suo diario di viaggio di una giovane compagna che divideva Villa Brichieri Colombi con Blagden.12 “Dal 1857 al 1858 infatti Blagden divise il suo appartamento con Annette Bracken, una giovane inglese di ventiquattro anni.13 In una lettera alla cognata, Barrett Browning14 illustrava i termini dell’accordo tra le due donne. Bracken aveva a sua completa disposizione una camera e un salotto di villa Brichieri-Colombi, e pagava anche una quota per la carrozza. “Annette” venne ben accolta dagli amici di Blagden che si riunivano regolarmente sul balcone di villa Brichieri-Colombi; accompagnava la padrona di casa durante le sue visite agli angloamericani residenti a Firenze15 e seguiva l’amica più anziana anche durante le vacanze estive. Nell’agosto del 1857 le due donne visitarono assieme Bagni di Lucca, dove incontrarono altri angloamericani, (tra cui i Browning e il poeta Robert Lytton) che avevano abbandonato la torrida Firenze per rifugiarsi sulle fresche colline lucchesi.

Un’ altra coinquilina di Blagden in questo periodo fu Kate Field. Arrivò in Italia all’inizio del 1859 accompagnata dagli zii, i signori Sanford. Field, che successivamente diverrà una giornalista di grande talento e fama, era allora una giovane di vent’anni, felice di realizzare un suo sogno: quello di venire nella penisola a studiare musica. Dopo un breve periodo trascorso a Roma, Field giunse a Firenze. Grazie ad alcune lettere di presentazione indirizzate ai Browning, ai Trollope e agli Hawthorne, che Field aveva ricevuto dal direttore del Boston Courier, il Signor Launt, riuscì ben presto ad inserirsi nell’ambiente culturale anglofiorentino. Alla partenza degli zii, Field volle trattenersi nella città toscana e fu, come afferma Whiting “placed in the care of Miss Blagden.”16  Quest’ultima portava con se Kate Field ovunque si recasse. Ad esempio, nel settembre del 1859 Blagden fu invitata dai Browning che stavano trascorrendo i mesi estivi nella campagna senese e vi si recò assieme alla giovane amica.17 A villa Brichieri-Colombi Kate Field rimase fino ai primi mesi del 1860, quando la signora Field raggiunse Kate a Firenze. Tuttavia, anche dopo che madre e figlia si furono trasferite in un appartamento in città continuarono a frequentare assiduamente Bellosguardo, dove si recavano quasi ogni giorno. L’amicizia tra Blagden e Field non cessò nemmeno quando quest’ultima fece ritorno in America.
 

Kate Field, from Lilian Whiting, Jeannette Marks

Quando Kate Field, all’inizio del suo soggiorno italiano, era giunta a Roma, aveva fatto la conoscenza di tre donne, anch’esse legate a Blagden da una profonda amicizia: l’attrice Charlotte Cushman, e le scultrici Harriet Hosmer e Emma Stebbins. All’inizio del 1859, quando le incontrò, esse condividevano (da pochi giorni) una casa al numero 38 di via Gregoriana. L’edificio, grazie alla presenza di queste grandi artiste, divenne uno dei luoghi di incontro di Roma più frequentati dagli anglo-americani. Le tre donne erano legate dalla comune amicizia per Isabella Blagden; tutte e tre furono ospiti a Bellosguardo. Durante il loro periodo italiano, soggiornavano di preferenza a Roma e quando visitavano il capoluogo toscano venivano accolte da Isa Blagden. Talvolta l’ospitalità veniva ricambiata e la scrittrice si recava a Roma dalle tre amiche.

L’ospitalità di Blagden non si riduceva, come abbiamo visto, nell’accogliere e dividere la propria casa con altre donne. Durante gli anni che vanno dal 1856 al 1861 Isabella Blagden consacrò principalmente il suo tempo e la sua energia alla vita sociale. Questo fu il periodo in cui la scrittrice abitò a villa Brichieri-Colombi, dimora che divenne il luogo di ritrovo per eccellenza.

John Brett, Florence from Villa Brichieri, Bellosguardo, 1863, painted after reading Aurora Leigh
Hebrew Cemetery on left outside wall.

Frances Power Cobbe ricorda nella sua autobiografia che sul balcone di villa Brichieri-Colombi si ritrovavano regolarmente una compagnia interessante e molteplice.18 Blagden riceveva nelle sue ville di Bellosguardo numerosi ospiti di diverse nazionalità; sebbene i ricevimenti veri e propri si tenessero una volta alla settimana (il sabato), gli amici più intimi si recavano alla villa quasi ogni giorno. Nei salotti di Blagden si ritrovavano sia gli angloamericani stabilitisi a Firenze, sia coloro che si trovavano nella città toscana anche solo per un breve periodo. Alfred Austin ci ricorda come Blagden amasse circondarsi di “truly congenial spirits” e come fosse molto raro che un letterato o un artista passasse per Firenze senza fare la sua conoscenza.19

Cobbe, che si vantava delle personalità che aveva avuto occasione di incontrare a villa Brichieri-Colombi, ha anche elencato i nomi dei vari ospiti che più frequentemente lei e Blagden ricevevano durante quella primavera del 1860.20  Dopo aver ricordato tra gli amici più intimi di Blagden, i Browning, specificando che dato le precarie condizioni di salute della moglie, solo Robert frequentava abitualmente villa Brichieri-Colombi, Cobbe parla di Thomas Adolphus Trollope come di un altro assiduo ospite del salotto di Bellosguardo.21

Cobbe cita inoltre Linda White, la scrittrice, autrice tra l’altro di Tuscan Hills and Venetian Waters, che successivamente sposò lo storico Pasquale Villari. Essa fu l’unica dei numerosi conoscenti di Blagden a essere presente durante la sua ultima malattia. Frequentatore assiduo di Belloguardo era anche Walter Savage Landor, di cui Blagden fu una delle persone più vicine durante gli ultimi anni della sua vita. Fino a quando Robert Browning era rimasto a Firenze si era occupato di lui, gli aveva persino trovato un alloggio quando, in seguito ad un litigio, la moglie lo aveva cacciato da villa Gherardesca a Fiesole;22 dopo che Browning lasciò la Toscana, Blagden si prese cura di Landor andando spesso a fargli visita fino alla morte, avvenuta nel settembre del 1864. Cobbe ricorda inoltre tra i loro ospiti abituali il dottor Grisanowski, di nazionalità polacca, Jessie White Mario e Frederick Tennyson, il poeta e musicista che aveva precedentemente soggiornato a Bellosguardo, proprio nella villa Brichieri-Colombi.

Nel 1860 erano inoltre presenti a Firenze l’americana Harriet Beecher Stowe, autrice di Uncle Tom’s Cabin, che frequentò il salotto di Bellosguardo, e George Eliot. Quest’ultima non si recò mai a villa Brichieri, tuttavia Blagden ebbe occasione di conoscerla quando questa si trovava a Villino Trollope e “was enchanted, like all the world, with [her].”23

Cobbe tralascia, per dimenticanza o perché assenti da Firenze nel 1860, alcune personalità che frequentarono assiduamente il salotto di Blagden e con le quali la scrittrice instaurò durature amicizie: tra questi Nathaniel e Sophia Hawthorne, che soggiornarono a Firenze nel 1858, lo scultore americano Hiram Powers, il musicista Francis Boott, che abitava a Bellosguardo, in un appartamento di villa Castellani, Anna Jameson, la storica dell’arte e una delle più care amiche di Barrett Browning, Robert Lytton, il poeta che scriveva utilizzando lo pseudonimo di Owen Meredith e che aveva soggiornato a villa Brichieri-Colombi nei primi anni Cinquanta.

Con questo elenco non intendo certo esaurire il numero delle persone che frequentavano il salotto di Blagden a Bellosguardo. Alfred Austin a proposito delle amicizie della scrittrice parla di “the widest circle of friends I have ever heard of one person possessing” e successivamente la definisce “a universal favourite”.24Sarebbe quindi quasi impossibile citare tutti i suoi conoscenti.

Blagden era la protagonista principale di questi incontri, sebbene non fosse in alcun modo quella che veniva definita una “grande dame”. La sua conversazione era animata e gaia, sebbene di carattere non fosse particolarmente estroversa ed espansiva, non possedeva cioè quelle qualità che qualche anno prima avevano permesso alla brillante Contessa Blessington di dominare nel suo elegante salotto situato sul Lung’Arno. Uno degli attributi di Isabella Blagden che più colpiva i suoi amici era l’umiltà, caratteristica che poco si accorda con la comune concezione della figura della salonnière, di solito una donna di temperamento esuberante, abituata ad essere al centro dell’attenzione. Ma Blagden, pur nella sua pacatezza, riusciva ad intrattenere e divertire i suoi numerosi ospiti che spesso erano caratterialmente diversissimi tra loro. A questo proposito Austin ci dice che niente rendeva così contenta Blagden come l’ospitare nella sua villa i suoi amici, ma la sua benevolenza era così grande che spesso ella commetteva l’errore di mescolare l’acqua con il fuoco. “Yet she herself possessed some secret charm, which enabled her to fuse equally with either.”25 Lilian Whiting, nel suo The Florence of Landor, ha scritto riferendosi ai membri che facevano parte della colonia angloamericana: “the many strong and altogether dissimilar individualities that composed this cercle entime all found some point of common meeting with “Isa”, as they all called her.”26Per tutti basta ricordare che i rapporti che intercorrevano tra Robert Browning e Alfred Austin, due dei migliori amici Blagden, erano tutt’altro che amichevoli.27

Gli argomenti di cui si discuteva durante questi ricevimenti erano vari. Le discussioni vertevano su temi di arte, di musica e di letteratura, ma soprattutto di politica e di spiritismo, un argomento quest’ultimo che appassionava quasi tutti gli ospiti, eccezion fatta per qualche scettico come Walter Savage Landor e Robert Browning. Ma il tema di discussione più interessante era certamente la questione politica italiana.

Nel periodo in cui Isabella Blagden visse a villa Brichieri-Colombi, le questioni dell’indipendenza e dell’unità nazionale dominavano il pensiero dell’opinione pubblica italiana. Gli anglofiorentini che si trovavano regolarmente sul terrazzo di Bellosguardo non potevano evitare di interessarsi all’Italia contemporanea: in effetti tra gli argomenti sovente affrontati vi erano i problemi politici e sociali della loro “seconda” patria.

Esistevano opinioni profondamente diverse all’interno del gruppo e non raramente accadeva che anche in un singolo individuo si configurassero opinioni complesse e anche contraddittorie. Si configurava una conflittualità tra il persistere di un certo conformismo che si adeguava all’ideologia vittoriana e l’apertura verso modi di pensare nuovi. Gli anglofiorentini erano tutti a favore a favore dell’unità d’Italia, ma erano intimoriti dal fatto che promuovendo l’unità della penisola non si sapeva bene a che tipo di governo si andasse incontro e avevano paura che la loro serenità venisse in qualche modo turbata. Se messi a confronto con i connazionali che non avevano lasciato la patria, gli anglofiorentini apparivano più aperti a riconoscere l’esistenza di altri mondi oltre quello britannico; essi si impegnarono in lotte politiche che non gli “appartenevano”, mantenendo però un atteggiamento conservatore e di rifiuto verso qualsiasi sconvolgimento sociale che avrebbe potuto turbare la tranquillità della loro vita fiorentina.

Se analizziamo i rapporti che concretamente venivano a instaurarsi tra angloamericani e italiani, ci troviamo di fronte a un’incredibile assenza di contatti. Rimane la sensazione che la società inglese in Italia si presentasse come un circolo chiuso, nel quale si veniva a creare una realtà vicino a quella della madrepatria, che si credeva si fosse lasciata alle spalle.

L’Italia, con i suoi problemi di unità, era un argomento centrale nelle loro discussioni, ma gli italiani che venivano ammessi a partecipare a queste riunioni erano pochissimi. Blagden non era certo un’eccezione. Fondamentalmente il suo punto di vista rimase sempre quello imperialista; nonostante la sua volontà ad aprirsi a nuove esperienze, di prendere in considerazione nuove realtà politiche diverse da quelle dell’Inghilterra. L’italiano fu sempre considerato da Blagden, come dalla maggioranza degli anglofiorentini, come “l’altro”, un individuo “diverso” e quindi inferiore.

Gli unici italiani con cui Blagden e gli angloamericani in genere venivano in contatto appartenevano a classi sociali basse: i domestici, che venivano preferiti a quelli inglesi perché più economici, e i modelli di cui si servivano gli artisti, i quali possedevano quelle qualità “pittoresche” che gli angloamericani perennemente ricercavano. Se talvolta il rapporto tra i “signori” e i loro domestici andava al di là del semplice contatto lavorativo, i ruoli e le classi sociali rimanevano divisi in maniera netta. La convivenza dava luogo a un affetto che non intaccava la superiorità nazionale e di classe.

Più o meno tutti coloro di cui ho parlato hanno descritto nei loro diari, nelle loro lettere o nelle loro autobiografie le piacevoli serate trascorse sul colle fiorentino e hanno ricordato con parole di stima e di affetto la padrona di casa. Dai resoconti che di lei hanno lasciato i suoi contemporanei traspare una donna intelligente e dalla vasta cultura, in grado di affrontare conversazioni su argomenti disparati. Ma gli aspetti della personalità di Blagden che più vengono evidenziati sono il suo altruismo e la sua generosità, che la rendevano, come afferma Trollope, “more universally beloved than any other individual among us”.28Anche Henry James, che ha dedicato qualche pagina del suo William Wetmore Story and His Friends all’amica di Bellosguardo, sottolinea l’altruismo di Blagden e parla di lei come di una piccola leggenda.29Inoltre, Austin scrive: “No matter what might be at the moment her own occupations, her own plans, or the demands of her own interest, she quitted them on the instant at the invitation of helplessness.”30 Il poeta, a conferma di quanto ha scritto, riporta anche un episodio che lo riguarda. Nel 1865 Blagden, sebbene fosse molto occupata per motivi personali, non negò il suo aiuto all’amico quando questi gli chiese di procurargli un alloggio a Firenze.

Il suo altruismo è dimostrato dalla solerzia con cui aiutava gli amici che avevano bisogno di lei per motivi di salute. Nel 1857, durante un’estate a Bagni di Lucca, il poeta Robert Lytton si ammalò gravemente di febbri gastriche. Le lettere dei Browning, anche loro residenti sulle colline lucchesi, testimoniano con quanta cura Blagden si prendesse cura dell’amico. All’inizio si rifiutò persino di chiamare un’infermiera, ostinandosi a voler occuparsi da sola dell’ammalato. Quando il poeta iniziò a sentirsi meglio e fu in grado di muoversi da Bagni di Lucca, Blagden lo portò con se a villa Brichieri-Colombi, dove egli trascorse i giorni della sua convalescenza.

Alcuni critici, tra cui William Raymond e Giuliana Artom Treves, avanzano l’ipotesi di una sorta di relazione sentimentale che nacque in questo periodo tra Blagden e Lytton, amore che sembrerebbe incoraggiato dai Browning. Elizabeth Barrett Browning identificò Isa come la “Cordelia” della poesia di Lytton intitolata The Wanderer, e con questo nome la poetessa si rivolge all’amica in una lettera del 1859.31 William Raymond prende spunto da alcune parole della figlia di Lytton, Betty Balfour, la quale scrisse che appena giunto in Italia il padre incontrò una donna a cui si affezionò, ma a cui non si poté legare a causa di barriere insormontabili. Balfour aggiunse che comunque questo legame influenzò gran parte degli scritti giovanili del padre. Raymond individua le “barriere” per cui il matrimonio tra i due sarebbe stato impossibile (prima fra tutti i quindici anni di età che dividevano i due scrittori) e analizza una poesia giovanile di Lytton, Lucile, dove nell’eroina riscontra alcune caratteristiche che potrebbero adattarsi alla Blagden. Lucile è infatti un’euroasiatica, viene descritta come una donna matura e le caratteristiche fisiche corrisponderebbero a quelle della scrittrice anglofiorentina.32

Isabella Blagden comunque non riservò le sue cure come infermiera solo a Lytton. Nel 1865 assistette Theodosia Trollope nella sua ultima malattia e dopo la sua scomparsa si prese cura della figlia Beatrice, che ospitò a Bellosguardo nei giorni successivi alla morte della madre.

Anche Elizabeth Barrett Browning, che tanto aveva lodato l’amica nel periodo in cui era stata infermiera di Lytton, fu assistita negli ultimi giorni di vita da Blagden. Eccezion fatta per i familiari, ella fu l’ultima persona che vide e parlò con la poetessa. Kate Field scrisse in un articolo dedicato a Barrett Browning: “on this final evening, an intimate female friend was admitted to her bedside and found her in good spirits, [...] willing to converse on all the old loved subjects”.33 L’ “intimate female friend” di cui parla Field, altri non è che Isa Blagden, la quale però, quella notte non riuscì a prendere sonno, nonostante avesse trovato l’amica in condizioni di salute migliori. Racconta Lilian Whiting che ella rimase l’intera notte alzata a scrivere delle lettere, finche all’alba un domestico non venne ad annunciarle la morte della signora di Casa Guidi.34

Blagden fu l’amica più vicina e sicuramente più utile a Robert Browning nei giorni che seguirono la scomparsa della moglie, durante il periodo che ella denominò “apocalyptic month.”35 Si addossò ogni cura materiale, condusse immediatamente il figlio dei Browning nella sua casa di Bellosguardo e dopo il funerale convinse il padre a passare le notti a villa Brichieri-Colombi,36 mentre gli ultimi doveri lo trattenevano a Firenze. Inoltre, come abbiamo visto, Blagden chiuse la sua dimora, depositò i suoi averi a villino Trollope e partì assieme a Robert Browning e il figlio per accompagnarli fino a Parigi.37

Sebbene una volta giunta a Firenze Isabella Blagden elesse la città toscana a sua residenza permanente, il viaggio rimase una parte fondamentale della sua vita. Infatti la scrittrice trascorse lunghi periodi lontana da Bellosguardo, recandosi sia in altre città italiane sia all’estero. Priva di legami familiari, poteva permettersi di viaggiare più liberamente di quanto normalmente fosse consentito alle donne, spesso “recluse” nello spazio privato della casa e della famiglia.

Tramite il viaggio, primo fra tutti quello che l’aveva portata dalla patria d’origine a Firenze, Blagden aveva avuto la possibilità di uscire dalla stabilità (il mondo “conosciuto” che viene lasciato alle spalle) per entrare nel regno dei cambiamenti, delle modificazioni, della frammentarietà.

Ma per Blagden, donna inglese della middle-class, viaggiare significava solo parzialmente disfarsi della stabilità. Potrei definire gran parte dei suoi viaggi come “codificati”; per gli angloamericani residenti in città italiane era infatti un’abitudine radicata lasciare il luogo prescelto come fissa dimora per trascorrere lunghi periodi altrove. Isabella Blagden, come gran parte degli anglofiorentini, abbandonava la città toscana durante i mesi estivi, anche se, a causa delle sue precarie condizioni economiche, non poteva permettersi di lasciare la soffocante Firenze ogni anno.

Blagden spesso peccava di originalità anche per quanto riguarda le mete prescelte. L’itinerario seguito era costruito su una mappa dell’Italia molto selettiva. Sebbene virtualmente il territorio italiano potesse essere visitato per tutta la sua estensione, Blagden, come gran parte delle viaggiatrici straniere, si limitava a ricalcare un percorso classico che risaliva ai tempi del Grand Tour. Secondo un antico preconcetto vi erano solo alcune città che valeva la pena di visitare e poi eventualmente descrivere. Questo itinerario era, per quanto non fosse percepito come tale, una vera e propria restrizione culturale; di fatto lo spazio peninsulare era delimitato da tutta una serie di confini che dividevano spazi accessibili (le grandi città d’arte) e altri non accessibili (per esempio la costa adriatica).

Nel 1857, seguendo la “moda” angloamericana del periodo, si recò a Bagni di Lucca, dove sperava di trascorrere piacevolmente i mesi estivi. I Browning erano già confortevolmente alloggiati a “casa Betti”, quando Blagden arrivò accompagnata da Annette Bracken (che in quel periodo condivideva la villa Brichieri-Colombi con la scrittrice) e Robert Lytton. Essi presero alloggio in un albergo, il “Pelicano”, ma la vacanza si rivelò tutt’altro che piacevole, visto che Lytton ben presto si ammalò. Bagni di Lucca era un luogo di vacanza particolarmente gradito ai Browning, che vi avevano già trascorso le estati del 1849 e del 1853. Nella mente di Blagden il luogo divenne però associato con ricordi spiacevoli e Elizabeth Barrett era sicura che non vi avrebbe mai fatto ritorno.38Tuttavia, dieci anni dopo la scrittrice tornò sulle colline lucchesi e questa volta riuscì a apprezzarne la bellezza,39tanto che vi rimase diversi mesi, dal maggio all’ottobre del 1867.

Quella di Bagni di Lucca non fu l’unica vacanza trascorsa con i Browning. Nel settembre del 1859 fu, assieme a Kate Field, ospite di Villa Alberti, un edificio situato nella campagna senese, che i Browning avevano affittato per l’estate e in cui l’anno successivo i due coniugi tornarono a soggiornare. Anche Blagden prese in affitto una villa nelle vicinanze. Quell’estate, inoltre, erano nella campagna senese anche Landor e lo scultore William Wetmore Story con la famiglia. Barrett Browning stessa affermò: “this make a sort of colonization of the country here.”40Successivamente, Blagden tornò a trascorrere l’estate a Siena nel 1870, quando ormai Barrett Browning e Landor erano deceduti e Robert Browning era da lungo tempo in Inghilterra.

Oltre ai luoghi come Bagni di Lucca e la campagna senese, che durante i mesi estivi venivano “colonizzati” dagli angloamericani, per Isa Blagden ebbero molta importanza le visite a Roma e Venezia, le due città italiane che, assieme a Firenze, i turisti stranieri ritenevano più degne di attenzioni. Il termine “visitare” non è del tutto esatto quando ci si riferisce a Roma, visto che Blagden, in due occasioni, risiedette nella città per vari mesi. Sebbene Firenze fosse il luogo di residenza prescelto da un gran numero di letterati, pochi artisti (tra i quali è però d’obbligo ricordare Hiriam Powers, un caro amico di Blagden) avevano deciso di stabilirsi definitivamente nel capoluogo toscano, preferendo Roma.

La lista degli scultori e dei pittori che fecero della futura capitale il loro luogo di residenza permanente o comunque prolungato, è lunga e comprende tra gli altri John Gibson, William Wetmore Story, William Page e Harriet Hosmer, tutte persone con le quali Blagden era in contatto. Non di rado accadeva che coloro i quali avevano eletto Firenze a loro città adottiva, passassero alcuni mesi dell’anno, in particolar modo quelli invernali, a Roma. Blagden dunque, con la sua scelta di soggiornare per un periodo nella città preferita dagli artisti, non faceva altro che seguire una consuetudine radicata tra i cittadini angloamericani residenti a Firenze. Anche i Browning passarono più di un inverno nella “città eterna”. Per Blagden questa immersione nella Roma “of the artists”41fu utilissima da un punto di vista letterario, basta pensare al suo primo romanzo, Agnes Tremorne, la cui protagonista che dà il nome al libro, è una pittrice inglese che abita a Roma.

Nel 1851 Isa abitò, assieme a Agassiz, in una casa situata al numero diciotto di via de’ Prefetti e tra gli anni 1854/55 scelse di stabilirsi al numero tredici di via Gregoriana. Questa strada, che si trova vicino a Trinità dei Monti, fu abitata da diversi nomi importanti della letteratura e dell’arte. Qui, infatti, come abbiamo visto, vennero ad abitare nel 1859 Charlotte Cushman, Harriet Hosmer e Emma Stebbins. In Via Gregoriana, Blagden colloca lo studio di pittore di Godfrey Wentworth, protagonista maschile di Agnes Tremorne. A Roma la scrittrice tornò anche in periodi successivi, ma non prese più case in affitto; vi si recava come ospite di qualche suo conoscente, come quando nel 1864 fu accolta da Charlotte Cushman.

A Venezia Isabella Blagden probabilmente si recò quasi sicuramente prima del 1862, anno in cui uscì la sua seconda opera in prosa, The Woman I Loved and the Woman Who Loved me. La città è infatti uno dei luoghi in cui si sviluppa la storia, anche se il romanzo è principalmente ambientato in Inghilterra. E’ certo comunque che la scrittrice vi fece ritorno nel maggio del 1865, ospite di William Bracken, parente di quella Annette Bracken, con cui aveva condiviso villa Brichieri-Colombi. Era un periodo particolarmente triste per la scrittrice, poiché poco tempo prima era deceduta l’amica Theodosia Trollope, che aveva assistito negli ultimi giorni della sua malattia. Il viaggio comunque riuscì a distrarla e le offrì lo spunto per un articolo, intitolato A Holiday in Venice, che fu pubblicato sul Cornhill Magazine nell’ottobre di quello stesso anno.

Isabella Blagden non si limitava a viaggiare in Italia, spesso si recava per lunghi periodi anche all’estero. Dal novembre del 1858 al marzo dell’anno successivo, soggiornò a Madrid. Nel luglio del 1871 la scrittrice visitò l’Austria, ma era l’Inghilterra il luogo in cui si recava tutte le volte che poteva permetterselo.42Principalmente ella sceglieva Londra come meta, ma visitava anche altre zone, quasi sempre ospite di amici. Si recò in questo paese nel 1852 e successivamente a cavallo tra il 1854 e il 1855. Poi lasciò villa Brichieri-Colombi alla morte di Elizabeth Barrett Browning con l’intenzione di stabilirsi nell’isola britannica, ma dopo circa un anno fece ritorno a Bellosguardo. In Inghilterra tornò poi nell’estate del 1866 e in quella del 1868, quando visitò anche la Scozia. L’ultima visita di Blagden in questo paese risale all’estate del 1872. Nel gennaio dell’anno successivo ella morì.

Nella vita di Isabella Blagden il viaggio ha avuto un ruolo fondamentale e questo lo si nota anche nei suoi romanzi; sin dalla prima lettura è facile osservare come quasi tutti i suoi personaggi viaggino, per un motivo o per un altro: per salute, per istruzione o, più spesso, per fuggire dal dolore provocato da delusioni sentimentali. Dalle sue peregrinazioni Blagden ricava il materiale per scrivere; nonostante essa non abbia lasciato opere collocabili nell’ambito della letteratura di viaggio, nei suoi romanzi e nelle sue poesie sono visibili delle tracce che testimoniano le sue esperienze come viaggiatrice. Blagden si “appropria” dello spazio che incontra viaggiando tramite la scrittura; il suo vissuto interiore si trasforma in qualcosa di trasmettibile. Ecco allora che le città italiane che ha visitato e in cui ha vissuto diventano l’argomento dei suoi articoli, lo spunto da cui partire per comporre una poesia, il setting dei suoi romanzi.

Alla morte di Elizabeth Barrett Browning, Blagden lasciò villa Brichieri-Colombi per accompagnare Robert Browning e il figlio a Parigi. La morte dell’autrice di Aurora Leigh, avvenuta nel giugno del 1861, segnò la prima e forse la più grande spaccatura nel circolo degli amici di Blagden. Nell’estate dello stesso anno la giovane giornalista Kate Field, che aveva vissuto per un periodo a villa Brichieri con Blagden, fece ritorno in America. Nel 1863 morì Frances Trollope, seguita nel 1864 da Walter Savage Landor, nel 1865 da Theodosia Trollope. Quattro anni dopo la “chiusura” di Casa Guidi, cessò di esistere anche Villino Trollope, poiché Thomas Adolphus, dopo la morte della madre e della moglie, decise di vendere la proprietà e di stabilirsi a Ricorboli. Delle tre abitazioni che erano state i centri più importanti di ritrovo per le persone di lingua inglese, rimase solo la villa di Blagden, anche se non più la Brichieri-Colombi.

A dire la verità, dopo la morte di Elizabeth Barrett Browning, anche Isabella Blagden aveva pensato di lasciare il capoluogo toscano per trasferirsi in Inghilterra, come testimonia una lettera che Robert Browning scrisse allo scultore William Wetmore Story.43Blagden rimase lontana dall’Italia dall’agosto del 1861 allo stesso mese dell’anno successivo. In Inghilterra ella era costretta, per ragioni economiche, a cambiare spesso indirizzo; inoltre risentì fisicamente del cambiamento di aria e la sua salute cominciò a peggiorare. Anche Browning si rese conto che per Blagden vivere in Inghilterra non era più consigliabile; in una lettera la incitava ritornare in Italia dove “the life there and ways are become yours.”44

Tornata sul colle di Bellosguardo Isabella Blagden affittò la villa Giglioni dove rimase fino al 1866. Dal 1866 al 1868 Isabella Blagben visse in una casa denominata Isetta, poi si trasferì in quella che si rivelò essere la sua ultima dimora: la villa Saracino al Belvedere.

In tutte queste case Blagden continuò a ricevere gli amici, ma gli incontri non tornarono mai ad essere quelli di un tempo, quando Elizabeth Barrett Browning era ancora in vita. Questi si rivelarono soprattutto anni di intensa produzione artistica: dal 1862 al 1872 Blagden pubblicò cinque romanzi, scrisse diverse poesie e numerosi articoli per conto di varie riviste.

Isa Blagden non iniziò a scrivere giovanissima, infatti il suo Agnes Tremorne fu pubblicato quando la scrittrice aveva ampiamente superato i quarant’anni. Dal 1861, data della pubblicazione della prima opera, al 1873, anno della sua morte, ha scritto complessivamente sei romanzi, cinque dei quali pubblicati in volume e il rimanente apparso a puntate su una rivista.

La ricostruzione della figura di Blagden non può non passare attraverso le sue opere, che invece sono state sottovalutate. Infatti, viene considerata semplicemente come una scrittrice di sottordine, una delle tante lady writers vittoriane, che scriveva romanzi di stampo sentimentale per ragioni meramente economiche. Il canone letterario che funge da parametro di valore e gusto, sembra aver irrimediabilmente relegato le sue opere nell’ambito della  letteratura “bassa”, popolare. Perciò questi testi sono stati in un primo testo/tempo? emarginati e successivamente dimenticati.

Non si può certo negare che i testi di Blagden contengano pagine artisticamente poco felici: basta pensare al modo in cui la scrittrice dipinge gli abitanti della penisola per rendersi conto che rimaneva imprigionata nei più scontati stereotipi costruiti dalla cultura angloamericana. E’ inoltre innegabile la tendenza di Blagden a sottomettersi sia alle esigenze del mercato editoriale (che ordinava triple decker o romanzi adattabili alla pubblicazione seriale) sia alle norme che nella società vittoriana regolavano la produzione “femminile”. Si pensi ai temi affrontati, quali l’amore e il matrimonio e al finale “giusto” , quasi sempre presente, che prevedeva il matrimonio o la morte dell’eroina ribelle.

Nonostante ciò le opere di Blagden vantano anche dei meriti letterari; le trame sono avvicenti e la scrittrice riesce a salvaguardare una sua originalità. L’elemento che sicuramente più di ogni altro accomuna e rende uniche le opere di Isabella Blagden è la presenza dell’Italia, infatti gli intrecci non sono mai sprovvisti di un setting e/o di un personaggio italiano.

Ma i suoi romanzi sono interessantissimi soprattutto se di considera il discorso dei diritti delle donne, che entra a far parte dei suoi scritti. Isabella Blagden ha creati bellissime figure femminili, che ricoprono sempre un ruolo primario all’interno della struttura narrativa, si interrogano sulla posizione della donna all’interno della società vittoriana e propongono scelte diverse da quelle indicate dalla cultura dell’epoca., Tra queste il nubilato e la convivenza tra donne come alternativa all’unione coniugale e la rivendicazione al diritto al lavoro, remunerato in maniera equivalente a quello maschile.

Thomas Adolphus Trollope ricorda nella sua autobiografia il triste evento della scomparsa dell’amica. Lo scrittore anglofiorentino pensava che la morte prematura avrebbe potuto essere evitata; spiega come Isa vivesse sola e come fosse ostinata a non voler chiamare un medico quando si trattava della sua salute. Il dottore la visitò soltanto il secondo giorno della malattia, ma Trollope pensava che se fosse stata curata sin dai primi sintomi avrebbe potuto salvarsi. Lo scrittore era momentaneamente assente da Firenze e quando tornò in città apprese la notizia della scomparsa dell’amica.45

Isabella Blagden fu sepolta nel cimitero protestante di Firenze, accanto a numerosi cari amici che condivisero con lei l’amore per la città e per l’Italia.
 

NOTE

1 Scrive Trollope “It was (yes, as usual “was”, alas, though she was very much my junior) …” Thomas Adolphus Trollope, What I Remember, vol. II, 173
2 Dentler accetta come valida la data del 1818, mentre Raymond afferma che Lytton, nato nel 1831, era di quindici anni più giovane di Blagden, e Miller la ritiene di quattro anni più giovane di Robert Browning, nato nel 1812. Clara Louise Dentler, Famous Foreigners in Florence, 1400-1900 (Firenze: Bemporad Marzocco, 1964) 34; Raymond, 450; Betty Miller, Robert Browning: A Portrait (London: John Murray, 1952) 200
3 Hawthorne, “There was an ambiguity about this young lady, which, though it did not imply necessarily anything wrong, would have operated unfavourably as regarded her reception in society, anywhere but in Rome. The truth was that nobody knew anything about Miriam, either for good or evil. She had made her appearance without introduction, had taken a studio, put her card upon the door, and showed very considerable talent as a painter in oils.” The Marble Faun, 23.
4  Lilian Whiting, The Florence of Landor (London: Gay and Bird, 1905) 138.
5  Field, “English Authors ...”, 671. La descrizione di Margaret Jackson è riportata in Browning, Dearest Isa, xxi.
6  Henry James, “I talk with an eager little lady who has gentle, gay black eyes and whose type gives, visibly enough, the hint of East-Indian blood.” William Wetmore Story and His Friends: from Letters, Diaries and Recollections (New York: Grove, 1903) vol II, 95.
7  Blagden, xviii.
8  Barfucci Enrico, Giornate fiorentine: la città, la collina, i pellegrini stranieri (Firenze: Vallecchi, 1961) 247.
9  Field, “English Authors ...” 671.
10  Barrett Browning, The Letters, vol. I, 467 e vol. II, 5.
11  Barrett Browning, The Letters, vol. II, 290; e Browning, Dearest Isa, 21-22.
12  Hawthorne, There was Miss Blagden’s companion, a very pretty and pleasant young lady.” The French and Italian Notebooks, 338.
13  Successivamente, nel 1863, Bracken si stabilì a Genova e l’anno successivo sposò, strano a dirsi, un ritrattista italiano, Giuseppe Frascheri.
14  Browning, Dearest Isa, 6.
15  Hawthorne, per esempio, ricorda la visita al pittore Seymour Kirkup: “My wife and I drove into town yesterday afternoon, with Miss Blagden and Miss Bracken to call on Mr Kirkup.” Hawthorne, The French ..., 390.
16  Whiting, The Florence..., 134.
17  Elizabeth Barret Browning scrive in una lettera del 26/09/1859 indirizzata ai Trollope: “Miss Blagden and Miss Field are staying with us, and are gone to Siena today to see certain pictures.” Trollope, vol. II, 183.
18  Cobbe, . “On the balcony, and in our drawing rooms, assembled regularly every week and often on other occasions, an interesting and varied company” Life..., vol. II, 13-14.
19  Blagden, “English, French, Germans, or Americans touched her threshold, the same genial ‘salve’ greeted them”. Poems, xxii.
20  Cobbe, Life..., vol. II, 14 e segg.
21  Trollope, Quest’ultimo, nella sua autobiografia, ha scritto a proposito di Blagden: “Isa was [...] the intimate and very specially highly-valued friend of my wife and myself” vol. II, 173.
22  A tale proposito vedi la lettera che Elizabeth Barrett Browning scrisse da Siena nell’agosto del 1861: “Also, we brought with us from Florence [...] our friend Mr. Landor, who is under Robert’s guardianship, having quarrelled with everybody in and out of England. I call him our adopted son.” Barrett Browning, The Letters, vol. II, 403.
23  Cobbe, Life..., vol. II, 19.
24  Blagden, Poems, vii e xxi.
25  Blagden, xxi.
26  Whiting, The Florence ..., 131. Per il diminutivo vedere anche Trollope, che a tal proposito scrive: “We all called her “Isa” always.” Trollope, vol. II, 173.
27  Austin scrisse nel 1869 un articolo molto severo riguardo alle capacità poetiche di Browning, il quale a sua volta attaccò Austin in Pacchiarotto. Browning, Dearest Isa, 334.
28  Trollope, vol. II, 173.
29  “These friendships and generosities, in a setting of Florentine villas and views, [...] formed her kindly little legend.” James, William Wetmore Storyand his friends, vol II, 94.
30  Blagden, Poems, xiii.
31  “Lytton’s book is out – The wanderer – and you observe how the Athenaeum praises it – don’t you Cordelia?” Browning, Dearest Isa, 33.
32  Raymond, 449-52.
33  Field “Elizabeth Barrett ...”, 374.
34  Whiting, Women who have enobled life, 43.
35  Orr, 358.
36  Robert Browning scrisse alla sorella: “I went up two days ago to Isa’s Villa for the night and have done so since, returning in the morning – and that has stopped further progress of some unpleasant symptoms.” Robert Browning, New Letters of Robert Browning. A cura di William Clyde De Vane e Kenneth Leslie Kniclerbocker. (London: John Murray, 1951) 132
37  “Isa goes with me to Paris – which will be a great comfort: she is one of the warmest hearted persons I ever knew – she has been invaluable to me and Pen (who stays always with her).” Browning, New Letters..., 135.
38  Nel 1858 Barrett Browning scrisse: “Oh no – Isa Blagden would never go to the Bagni – never. She suffered too much last time – and she hates the place besides.” Browning, Dearest Isa, 276.
39  Vedi le lettere di Robert Browning del 19/06/67, del 19/07/67 e del 19/09/67 in Browning, Dearest Isa, 268-83.
40  Barrett Browning, The Letters, vol. II, 407.
41  Whiting, Italy..., 10.
42  Blagden, Alfred Austin scrisse: “Though Italy was the land of her adoption, she entertained so warm a love for her English friends, that she visited this country as often as she could afford to do so”Poems, xix.
43  “Miss Blagden will not return to Italy – at all events not before she has made an endeavour to live in England. She goes to Clifton, in all probalility, where Miss Cobbe is to see her comfortably settled. I cannot believe she will bear the change.” James, William Wetmore Story..., vol. II, 97.
44  Browning ha inoltre scritto: “I am glad you think twice before committing yourself to a residence in Clifton, your friend there can only wish your good, and what good goes with broken health – which your reason and resolution might have remedied? So consider: why should Italy be barred to you? [...] For me, – I should lose something by every inch that you were removed from me; you know that. But if you were up at Clifton and suffering beside, I should be practically as far off as if you were at Florence.” Browning, Dearest Isa, 88.
45 Trollope, vol. II, 175.
 
 

© Corinna Gestri, 2004
 


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